Il presidente della Serbia Aleksandar Vučić ha telefonato a Vladimir Putin per chiedere la proroga di tre anni al contratto per le forniture di gas naturale russo, in scadenza il 31 maggio. “C’è l’accordo” a prezzi politici vantaggiosi per Belgrado. Gli Stati esclusi dalla lista dei “paesi ostili” stilata dal Cremlino continuano dunque a fare affari con Putin. Soprattutto nel campo degli idrocarburi e delle altre materie prime.
La leva energetica è una formidabile arma nelle mani di Mosca per cercare di scardinare il fronte euroatlantico. L’esposizione delle cancellerie occidentali alle fonti energetiche russe varia enormemente in base alla posizione geografica e al grado di industrializzazione del paese. Putin lo sa, e tiene a ricordarlo all’Europa tutta: chi mostra neutralità verso la Russia può quantomeno limitare i danni.
La posizione morbida adottata da Vučić nei confronti di Mosca gli permette di accedere alle risorse energetiche necessarie per sostenere lo sviluppo della nazione più filorussa dei Balcani. Ma il gas scontato ha un costo politico. Il governo di Belgrado rischia di legarsi sempre più alle politiche del Cremlino. Il presidente serbo, finora molto cauto sugli incidenti interetnici nella vicina Bosnia-Erzegovina, potrebbe ritrovarsi suo malgrado a dover sostenere la causa indipendentista della Repubblica Srpska – vasta entità amministrativa bosniaca abitata in prevalenza da serbi – su pressione della controparte russa.
Se Svezia e Finlandia dovessero entrare nella Nato rafforzando il fronte euroatlantico del Baltico a ridosso dei confini, la Federazione russa potrebbe operare asimmetricamente azioni di provocazione per innescare la miccia della polveriera dei Balcani in mezzo al blocco occidentale. A quel punto la dispendiosa guerra d’Ucraina potrebbe non essere più la priorità di Washington e Bruxelles. Turchia e Croazia hanno già mangiato la foglia: non deve stupire che in questo delicato contesto siano proprio esse le nazioni più avverse all’ingresso dei due paesi scandinavi nella Nato.