“La riunificazione della madrepatria è una necessità storica: i compatrioti su entrambi i lati dello Stretto devono unirsi e condividere la grande gloria del ringiovanimento nazionale”. Con queste parole pronunciate nel discorso di fine anno Xi Jinping ha ribadito la posizione di Pechino su Taiwan.
Non è certo la prima volta che Xi definisce “inevitabile” la “riconquista” di Taiwan. Lo aveva già fatto al summit di San Francisco di novembre, quando ha chiesto a Joe Biden di sostenere la “riunificazione pacifica”.
Ma stavolta l’avvertimento arriva a meno di due settimane dalle cruciali elezioni presidenziali taiwanesi del 13 gennaio. Di solito, più la Cina mostra i muscoli e più i taiwanesi se ne allontanano. Così è accaduto alle elezioni del 2020, dopo il duro discorso del 2 gennaio 2019 e la repressione delle proteste di Hong Kong.
Per cosa opteranno i taiwanesi? Il preferito sembra Lai Ching-te del Partito progressista democratico: attuale vicepresidente, è considerato il più radicale della presidente uscente Tsai Ing-wen. Presenta il voto come “una scelta tra democrazia e autoritarismo”, suggerendo che con la vittoria dell’opposizione “filocinese” l’inglobamento sarebbe più vicino.
Hou Yu-ih del Kuomintang è più dialogante con Pechino e parla di “scelta tra guerra e pace”, sostenendo che con la vittoria del “filo indipendentista” Lai si rischierebbe l’invasione. Il terzo incomodo è Ko Wen-je, ex medico che si descrive come “anti ideologico”, che potrebbe diventare il kingmaker di un Parlamento senza maggioranza.