A Milano i prezzi al metro quadro sono saliti di più del 60% in un decennio, mentre i salari sono rimasti fermi; le agenzie immobiliari mostrano vetrine in cui quasi tutte le proposte riportano la scritta ‘venduto’. Cos’è successo?
In una società giusta la casa dovrebbe essere un diritto a prescindere dalle proprie possibilità di guadagno; ma perfino una società ingiusta, se vuole funzionare, deve permettere di accedere a un alloggio a chi la manda avanti. È il minimo assoluto che un patto sociale, anche se ingiusto, debba offrire perché un sistema sia produttivo.
Oggi, a Milano, questo patto è stato infranto. Nel 2024 un salario d’ingresso non basta per affittare un monolocale. Una famiglia di quattro persone con carriere avviate – commissaria di polizia e professoressa associata, medico di base e ingegnere edile – ha poche speranze di ottenere un appartamento con una stanza per ciascuno dei figli.
Chi vive a Milano oggi è costretto a vivere al di sopra delle proprie possibilità. Non solo gli studenti. D’altronde, gli immobili in locazione a Milano su Airbnb sono 24mila. Se da un momento all’altro la piattaforma dovesse chiudere, l’offerta triplicherebbe. E il prezzo non potrebbe che scendere.
A ciò si aggiunga che in città le compravendite immobiliari sono meno di trentamila all’anno; poche migliaia di acquirenti in più bastano a influenzare il mercato.
C’è poi un altro fattore. Nel 2012, in tutta Italia, gli investimenti immobiliari di fondi esteri ammontavano a 1,8 miliardi di euro. Oggi nella sola Milano sono il triplo.
Infine, lo spazio fisico. Monaco e Amburgo hanno popolazioni simili ma, rispettivamente, il doppio e il quadruplo di superficie rispetto a Milano.
In sintesi, abolire gli affitti brevi, costruire in perdita (da parte del settore pubblico), potenziare i trasporti regionali: queste possibili soluzioni per contrastare gli effetti del mercato richiedono tutte un intervento pubblico energico, a livello sia nazionale sia locale.