
Il 4 maggio rappresenta la ‘fase 0’ del nostro Paese. Si è ripetuto per settimane che l’emergenza avrebbe cambiato il nostro modo di produrre e di consumare, il modo di pensare, il rapporto con lo Stato e con le istituzioni pubbliche, e i nostri sentimenti. Invece, al primo timido riaprire delle attività, si è vista la fretta di ripartire.
Ci ritroviamo come prima della crisi. Ma più preoccupati. E impoveriti. Parliamo della gestione, non del sistema e delle sue fragilità storiche. Con dimenticanze clamorose. Ad esempio, nei provvedimenti non c’è una riga sulla questione ambientale.
E sul piano economico, la crisi 2020 fa paura: il Pil al meno 8%, il debito al 155,7, il deficit al 10,4. Gli indicatori macroeconomici si abbattono così sulle fragilità storiche dell’Italia (il divario tra il Nord e il Sud, la crescita ineguale, la precarietà del lavoro) e sul tessuto di piccole e medie imprese che rischia di uscire stremato dal dopo virus.
Incombe anche la bomba povertà: oltre 11 milioni di lavoratori sono ricorsi al sussidio pubblico. Il sistema di infrastrutture e trasporti urbani che dovrebbe consentire la ripartenza era già allo stremo a partire dalla Capitale, ora è atteso al collasso finale nonostante l’ottima notizia della riapertura del ponte Morandi a Genova.
C’è poi la questione femminile: le donne sono le grandi dimenticate.
Sul piano politico, la Ripartenza è segnata dal ritorno delle piccole e grandi manovre attorno alla durata del governo. La maggioranza che sostiene il governo non è in buona salute, bombardata dall’interno (da Matteo Renzi che sembra pronto a chiudere la parentesi), mentre il premier Conte sognava una fase 2 da salvatore della patria.