Scuola aperta o in Dad (didattica a distanza)? Il governo Draghi, sostenuto da una maggioranza molto ampia e allo stesso tempo fragile vista la forte eterogeneità in termini politici tra i partiti che la compongono, ha fatto convintamente la sua scelta, ovvero quella di tenere gli istituti scolastici aperti.
Occorre evidenziare che le motivazioni addotte (in particolare la Dad rappresenta un fattore negativo dal punto di vista psicoemotivo per bambini e ragazzi). Difficile non essere d’accordo con questa impostazione che privilegia la socialità alla solitudine delle camerette.
Ma il problema è che il governo sembra aver fatto una scelta per così dire ‘emozionale’, quando invece sarebbe chiamato ad avere capacità di visione, non di previsione. E, dati alla mano, tutto lascia pensare che l’incremento dei contagi da Covid-19 tra i più giovani costringerà presto molte classi ad andare in Dad.
Quindi, chiudere le scuole ora per qualche settimana avrebbe più probabilmente reso possibile tenerle aperte più a lungo successivamente. E qui emerge il problema reale che c’è dietro alla decisione dell’esecutivo. Una mancanza atavica, certamente da parte non solo di questo governo, nella capacità di innovare.
La pandemia ha offerto su un piatto d’argento la possibilità di rivedere il sistema scuola, innovandolo appunto. In tal senso, la Dad poteva rappresentare un’arma in più da affiancare e integrare (laddove opportuno e necessario) al metodo classico, quello in presenza.
Quando Draghi sostiene che la Dad provochi l’aumento delle disuguaglianze probabilmente ha ragione ma sbaglia nell’individuazione del ‘colpevole’: non è tanto la didattica a distanza quanto la modesta dotazione infrastrutturale e strumentale della maggior parte delle scuole, dove persino una buona connessione alla rete può rappresentare un miraggio.
Eppure la pioggia di euro in arrivo attraverso il Recovery Fund rappresenta una grossa occasione, ad oggi mancata. In un anno, infatti, non si è mossa una foglia nella direzione del miglioramento nel funzionamento del mondo dell’istruzione. Ma le risorse per il bonus facciate ci sono: se si fosse pensato ad esempio a sistemare le scuole non si sarebbe comunque messa in moto l’edilizia?
Il governo, da questo punto di vista, prosegue sull’errante via dei suoi predecessori. L’Italia infatti da lungo tempo investe nell’istruzione meno dei principali competitors europei (Francia, Germania, Regno Unito, e Spagna), sia in termini di spesa pubblica in rapporto al Pil sia in riferimento alla spesa complessiva (come emerge dai dati disponibili sul portale dedicato agli indicatori economici e sociali a livello mondiale My Data Jungle).
Quello che manca è la cultura dell’innovazione, un limite (riscontrabile anche nel tessuto imprenditoriale del nostro paese) che impedisce all’Italia di esprimere appieno il proprio (peraltro enorme) potenziale. Eppure, da economista, il premier non può non sapere che per puntare a una robusta crescita economica nel medio lungo periodo uno dei principali ingredienti è proprio l’istruzione. Ma di qualità.