La decisione è presa: la Finlandia rinuncia al reddito di cittadinanza. Dopo averlo sperimentato per un biennio, il governo ritiene inopportuno estendere il reddito di base a tutto il paese. A gennaio 2019 verrano erogati gli ultimi importi.
Da gennaio 2017 un campione casuale di 2 mila disoccupati di età compresa tra 25 e 58 anni ha ricevuto un beneficio monetario pari a 560 euro, senza alcun obbligo di cercare o accettare un impiego.
Lo schema - che mira(va) principalmente a verificare se il reddito garantito potesse incentivare le persone ad accettare un lavoro retribuito eliminando, così, alcune lacune del sistema di welfare - non è (stato) a tutti gli effetti un “basic universal income”, perché le erogazioni sono (state) limitate sia negli importi, ovvero non sufficienti a sopravvivere senza godere di altri redditi, e limitate ad un campione ristretto. L’arco temporale, un biennio, è (stato) un altro errore fatale: troppo poco tempo per valutare una misura di questo tipo.
Eppure il reddito di cittadinanza sta tornando di moda e sembra poter catturare l’attenzione sia dei partiti progressisti, che pensano di poter ridurre in tal modo povertà e disuguaglianza, e sia di quelli conservatori, che lo vedono come strumento di una possibile transizione verso un sistema di welfare più snello e meno burocratico. Ma soprattutto svincola tutti dal dover trovare nuovi modi per accrescere l’occupazione.
Sullo sfondo la minaccia, anche in Finlandia, che l’automazione possa creare disoccupazione strutturale, poi difficilmente – si teme – riassorbibile nel mercato del lavoro. Ma il paese nordico, rinunciando al reddito di cittadinanza, ha di fatto accettato la sfida. Dovrà, tuttavia, fare i conti con quel 34% di finlandesi tra i 15 e i 74 anni che non lavora. E tra loro la quota di disoccupati è minoritaria. Ammesso di riuscire a traghettare quest’ultimi tra gli occupati, cosa fare, invece, della maggioranza?