Secondo Stephanie Kelton quasi tutti gli economisti hanno convinzioni teoriche paragonabili a quelle pre-copernicane. Kelton insegna Economia e Politica alla State University di New York ed è stata capo economista per i Democratici nella commissione Bilancio del Senato e consigliera di Sanders e Biden. Nel suo libro, da pochi mesi tradotto in italiano (Il mito del deficit – Fazi editore), spiega in modo chiaro la Modern Monetary Theory (MMT), una teoria che rovescia il modo di pensare tradizionale.
L’errore fondamentale, spiega Kelton, è pensare che lo Stato sia come una famiglia. Non è così. C’è una differenza fondamentale: uno Stato dotato di sovranità monetaria non può finire i soldi, perché ha la possibilità di crearli. Da quando, infatti, le monete non sono più legate a un bene fisico (nel 1971 il presidente Usa Richard Nixon sospese e poi abolì la convertibilità del dollaro in oro) il limite alla quantità che se ne può creare non è dettato dal livello del deficit o del debito, bensì dall’economia reale e il segnale è l’inflazione. Quando il livello dei prezzi al consumo sale vuol dire che si sta immettendo troppa moneta nell’economia. In quel caso occorre agire: per esempio aumentando la pressione fiscale, in modo da ridurre la capacità di spesa delle famiglie. Le tasse, secondo la MMT, non servono a finanziare la spesa pubblica: per quella basta stampare moneta. Ma servono per controllare l’inflazione e per evitare una distribuzione della ricchezza troppo sperequata.
Sempre secondo la MMT, uno Stato con sovranità monetaria potrebbe evitare di emettere debito pubblico, potendo finanziare con la sua moneta tutto ciò di cui c’è bisogno. La sovranità monetaria comporta tuttavia tre condizioni: disporre di una propria moneta da poter gestire liberamente; non legare la propria valuta ad altre, come nel caso di Venezuela, Niger, Bermuda; non indebitarsi pesantemente in altre monete, come hanno fatto ad esempio Brasile, Argentina, Turchia, e Ucraina.
I paesi che non soddisfano queste condizioni non si trovano più nella situazione di emittente, ma solo di utilizzatore di moneta. In questo caso i problemi diventano simili a quelli di una famiglia, e per finanziare le spese bisogna ricorrere alle tasse e al debito, diventando dipendente dal mercato.
Kelton e la MMT vedono un problema di vincolo esterno (per chi dispone di sovranità monetaria) solo per i paesi economicamente meno sviluppati, che “non possono permettersi di ignorare gli squilibri fiscali e commerciali, perché hanno bisogno di importare dall’estero i beni per il soddisfacimento dei bisogni essenziali (cibo, petrolio, medicine, tecnologia), il che significa che devono preoccuparsi di incassare sufficiente valuta straniera (solitamente dollaro Usa) con la quale pagare le importazioni”.
In realtà, quello di preoccuparsi assai poco del valore esterno di una moneta, cioè del valore che le attribuisce il resto del mondo, rappresenta il punto più debole di questa teoria. In un’economia globalizzata tutti i paesi scambiano intensamente tra di loro, e un persistente squilibrio dei conti con l’estero prima o poi presenta il conto anche se non si è un paese con un basso livello di sviluppo economico.
E i paesi europei? Non possono applicare la MMT, perché hanno rinunciato a una loro valuta. Ma l’Ue potrebbe: l’euro è la seconda valuta di riserva mondiale (la terza è lo yen) e l’Eurozona ha anche i conti con l’estero in forte attivo (quindi spende al suo interno meno di quello che potrebbe permettersi). D’altronde, negli ultimi anni la Bce (come le altre maggiori banche centrali) ha inondato l’economia di moneta, eppure l’inflazione non ha mai raggiunto l’obiettivo del 2%.
Come è possibile? Perché c’è molta capacità produttiva inutilizzata. Tanti disoccupati e imprese che producono meno di quanto potrebbero. La sperequazione nella distribuzione del reddito e della ricchezza gioca poi il suo ruolo: quando i soldi si concentrano in poche mani la domanda complessiva ne soffre, perché i ricchi risparmiano molto e quelle risorse vengono sottratte al circuito produttivo.