Ancora una puntata dell'annoso dilemma del terzo millennio: il progresso tecnologico aiuta o danneggia l'economia? Accresce o riduce l'occupazione e il Pil?
Ormai tutti gli studi sembrano concordare: non esiste e non può forse esistere, una risposta univoca. L’innovazione, ad esempio, agisce simultaneamente sui due fronti opposti: da una parte facilita i compiti al lavoratore, ma così facendo abbassa le difficoltà del singolo impiego. Aumenta in tal modo il numero di persone in grado di effettuare quel lavoro e, quindi, il numero degli impiegati per quella mansione - il Pil aumenta - ma al contempo si riduce la singola retribuzione, e il Pil va giù.
Anche lo studio Barclays Equity-Gilt, pubblicato il 10 aprile, non tenta di dare una soluzione al rebus ma, anzi, aggiunge un ulteriore elemento di incertezza perché va a smontare la stessa domanda, quella sull'impatto, positivo o negativo, dell'innovazione tecnologica sul Pil.
Ora è lo stesso Pil a essere messo in dubbio. Forse quel valore non è più in grado di descrivere la ricchezza e il benessere di una nazione. Questo strumento nacque, tanti decenni fa, per misurare una società fortemente manifatturiera. Ora a pesare sono i servizi, che si rivelano spesso intangibili e non perfettamente monetizzabili: per questo gli uffici statistici nazionali non riescono a conteggiarli in modo adeguato. Altro valore sottostimato nell'elaborazione del Pil, in quanto non retribuito, è il lavoro casalingo, in gran parte femminile.
Esisterebbero altri strumenti in grado di descrivere la condizione di un paese in modo più efficace, come quelli che misurano la longevità dei cittadini o l'età “ultima” prima dell’ingresso alla fase delle cure mediche.