Il 25 giugno del 1991 il Parlamento sloveno aveva approvato gli ultimi atti necessari per proclamare l’indipendenza. Lubiana aveva coronato il suo sogno. D’altronde, da decenni la Repubblica aveva cominciato a guardare verso il Centro Europa e verso Occidente. Negli anni ‘80, in maniera sempre più insistente, si erano fatti strada i diritti civili, le libertà individuali e la democrazia E ora il Paese stava arrivando alla meta. L’idea era quella di aderire in tempi brevissimi all’Ue e alla Nato.
Bruxelles, entusiasta per il percorso compiuto dal Paese, preferì non vedere la palese violazione dei diritti umani che portò a cancellare 26.000 persone dall’elenco dei residenti. Si trattava di uomini, donne e bambini, provenienti delle altre ex repubbliche jugoslave che non avevano chiesto la cittadinanza slovena. Un atto amministrativo che nulla aveva a che vedere con le atrocità compiute nel resto dei Balcani, ma che non fu meno crudele per chi lo subì.
Fu una delle poche macchie del processo di indipendenza. L’uscita dalla Jugoslavia era stata quasi indolore, il tenore di vita era cresciuto, al Paese erano state evitate le privatizzazioni selvagge, la forbice tra ricchi e poveri continuò a rimanere alquanto chiusa e l’amministrazione dello stato dimostrò di saper funzionare in maniera efficiente. Lubiana entrò in rapida successione nella Nato, nell’Ue e nell’Euro.
Il sogno iniziò a incrinarsi non appena gli obiettivi furono raggiunti. Quella che al tempo di Tito era considerata la Svizzera dei Balcani probabilmente si cominciò a rendere conto di non essere null’altro che l’ennesima insignificante periferia d’Europa. Oramai non c’erano più grandi traguardi da raggiungere e il pendolo che aveva portato Lubiana verso Occidente stava cominciando a tornare indietro.
Un processo che adesso sembra voler accelerare. Per Lubiana, e in particolare per l’attuale governo di centrodestra, il modello non è più Parigi o Berlino, ma Budapest o Varsavia. La rotta ora punta decisamente verso Est. Si marcia decisi verso i modelli della democrazia illiberale, in una sorta di gioco dell’oca geopolitico, dove ci sono voluti trent’anni per andare a Occidente e poi tornare a Oriente.