Quello di Trump verso la Cina è stato un fuoco di paglia, vista la rapidità con la quale è stata trovata un'intesa con Xi Jinping.
L’azione degli Stati Uniti ha comunque sollevato il velo su un tema scottante: gli squilibri delle partite correnti delle due economie più grandi del mondo. Tradotto, la dipendenza strutturale della crescita mondiale da quella cinese.
Se, da un lato, la Cina ha spiazzato gli investimenti e depresso il livello dei prezzi in numerosi paesi, è altrettanto vero che la domanda da parte di consumatori e imprese cinesi ha sostenuto la produzione e l’export in molti altri.
Questo spiega la strategia della minaccia perseguita da Trump per ottenere, in realtà, un rientro del disavanzo bilaterale. Il ribilanciamento non avviene mediante una riduzione dell’import, ma con un aumento dell’export.
Guardando alla crescita passata della Cina è possibile notare che il volano non è stato l’export, ma l’accumulazione di capitale: nel 2014 ha raggiunto un picco del 45% del Pil, mentre lo stock di capitale pro-capite il 48%, un livello molto più alto di quello di altre economie mature dell’Asia.
A partire dal 2009 i settori che hanno trainato gli investimenti sono stati le costruzioni e le infrastrutture. Quando la loro spinta è diminuita si è allora capito che la Cina sarebbe cresciuta a ritmi più bassi, prossimi al 6-7 % e non più al10%. Sono, tuttavia, anche venuti a mancare gli altri due pilastri della crescita: l’aumento della popolazione attiva e l’incremento della produttività.
Il punto è che quest’ultima è correlata all’incremento dell’export, che nel caso della Cina ha raggiunto il 13% e non sembra poter salire ancora. Tutto ciò fa pensare che il paese non possa sostenere neanche un Pil del 6% annuo senza un’adeguata spinta proveniente dai consumi, che però stentano ad accelerare. È stata, quindi, scongiurata la guerra commerciale, ma non i timori legati a un forte ribilanciamento.