Il Brasile entra in recessione tecnica, con il secondo trimestre consecutivo di crescita con il segno meno davanti. Tra luglio e settembre del 2021 il Pil è calato dello 0,1%, dopo il -0,4% nel secondo trimestre e il +1,2% nel primo. Il settore più colpito è stata l’agricoltura, con un calo dell’8%. Il tasso di incremento dei prezzi al consumo supera il 10% annuo. Si profila dunque la stagflazione (quel fenomeno caratterizzato da stagnazione e inflazione).
In tale difficile contesto è Pechino e non Washington a giocare un ruolo chiave. I rapporti economici con la Cina costituiscono infatti un ancoraggio forte alle prospettive del Brasile. Nel 2020 il 32% del valore delle esportazioni brasiliane è approdato nella seconda economia al mondo, superando di gran lunga tradizionali partner commerciali come gli Usa (10%) e Argentina (4%).
La Cina, al contempo, ha individuato nel Brasile una destinazione degli investimenti diretti delle proprie aziende. Tra il 2007 e il 2020, sono stati concretizzati 176 progetti, per un investimento totale di 66,1 miliardi di dollari così spalmati: il 48% destinato al settore dell’energia elettrica, il 28% destinato al settore petrolifero, il 7% all’estrazione di minerali metallici, il 6% all’industria manifatturiera.
Ai fattori economici si affiancano poi quelli politici, con l’incertezza elettorale. A meno di un anno dalle presidenziali, il bilancio della gestione di Bolsonaro pare molto negativo. Il leader della prima economia dell’America Latina, dal primo giorno di campagna elettorale, ha proposto una sorta di guerra culturale, senza mai interessarsi all’amministrazione e attribuendo alla presidenza un carattere del tutto personale.
Un immobilismo che non aiuta il Brasile, dove la disuguaglianza era e resta il problema più difficile da affrontare. Così il gigante sudamericano diventa sempre più fragile.