Tre mesi fa circa, l’anarco-capitalista Javier Milei diventato a sorpresa presidente argentino ha dato il via al suo piano di risanamento, deregolamentando ampi settori dell’economia, riducendo i sussidi diretti e indiretti, tagliando le pensioni e i fondi alle province, firmando un decreto di necessità e urgenza (bocciato al Senato) e un mega-disegno di legge con ampie riforme politiche e sociali (arenato al Congresso).
Obiettivo dichiarato: ridurre l’inflazione, smontare lo Stato nemico e azzerare il deficit fiscale, tagliando le spese ovunque sia possibile. Tranne il suo stipendio, aumentato del 50 per cento a causa di “un errore”. Poi è arrivato il bagno di realtà. Il presidente anti-casta ha capito che l’economia da talk show si è impaludata nelle sabbie della politica, scoprendo quanto sia difficile tradurre la popolarità in azioni e in leggi.
L’Argentina resta così lacerata: chi rimpiange lo Stato burocratico del benessere peronista, che da tempo faceva acqua da tutte le parti zavorrando le aspettative di un paese che attende ancora di diventare ‘grande’, e chi spera con la motosega anti-sistema di Milei di tornare ai fasti d’inizio ’900, quando Buenos Aires era una delle città più ricche del mondo. Nel frattempo, l’indice di povertà è ora oltre il 40 per cento registrato lo scorso anno e i consumi sono in caduta libera.