Il presidente siriano Bashar al-Assad è sopravvissuto a sette anni di una guerra devastante e alle intense pressioni internazionali che vorrebbero, invano, spingerlo a farsi da parte. Neanche gli attacchi del 14 marzo sono riusciti a scalfirlo, anche perché non sembra avessero l’obiettivo di rovesciare il governo. È stata una dimostrazione di forza, o questo voleva essere.
Agli occhi di Assad, tuttavia, gli Stati Uniti non hanno alcuna strategia per risolvere il conflitto siriano e non sono neanche in grado di impiegare un meccanismo efficace per impedire l’uso di armi chimiche.
Il presidente siriano riceve supporto dall’Iran dal 2012 per combattere contro i ribelli, anche se la spinta più forte l’ha ricevuta da Putin, da quando nel 2015 sono cominciati gli attacchi aerei russi contro i ribelli siriani.
Mentre i paesi occidentali e le potenze regionali, come la Turchia e l'Arabia Saudita, hanno espresso la loro opposizione ad Assad, nessuno ha intrapreso azioni decisive per rimuovere il leader siriano. Dal canto loro gli Stati Uniti hanno evitato, per ora, di ripetere il tipo di intervento militare realizzato in Libia.
Nonostante la diffusa opposizione al suo governo, Assad continua a mantenere significativi livelli di sostegno in Siria. Un supporto che va oltre la sua stessa comunità alawita e comprende anche membri della comunità sunnita che hanno ottenuto benefici finanziari dall’esecutivo e che, quindi, hanno scarso interesse a modificare lo status quo. Ciò conferma che a prevalere sono gli interessi economici, piuttosto che quelli politici, sia sul piano interno che quello internazionale. Questo spiega il parziale “bluff” del 14 marzo, che ha consentito a Mosca di non modificare le relazioni con Assad e a Washington di mantenere una promessa e difeso una posizione di principio. Così Trump spera sia interpretata.