Da americani, abbiamo sbagliato tutto sulla Cina. Credevamo che la politica della pazienza avrebbe portato frutti, avrebbe fatto inesorabilmente evolvere la Cina verso la democrazia. Bastava saper aspettare e lentamente la capacità di attrazione degli Stati Uniti, gli scambi commerciali, anche la musica e la cultura pop, avrebbero avvicinato ai nostri valori quel mondo così complesso e isolato.
Questa politica dell'attesa speranzosa era stata inaugurata da Richard Nixon nel 1969 e poi seguita da tutti i presidenti successivi, sia repubblicani sia democratici, in chiave strategica: durante la guerra fredda mirava a distogliere Pechino dalla convergenza con l'Unione Sovietica. E neanche due fatti epocali hanno fatto cambiare agli Usa la strategia nei confronti della Cina: la caduta dell'Unione Sovietica, che gli strateghi di Washington ritenevano impossibile, e la strage di piazza Tienanmen.
Si è sempre creduto che il processo di occidentalizzazione, a partire dal concetto di libere elezioni, fosse irreversibile. Anche Trump, che deve gran parte dei propri consensi proprio ai toni duri della sua campagna elettorale contro la Cina ruba-posti-di-lavoro statunitensi, ha dovuto seguire, a fianco a quella muscolare, anche una politica di "appeasement" per convincere la Cina a contenere il pericolo Corea del Nord.
Ma l'ultima decisione del partito comunista cinese, di cambiare la costituzione per consentire a Xi Jinping di rimanere alla guida del paese al di là del termine attuale dei due mandati, ha fatto capire che il cambiamento della Grande Muraglia non è affatto ineluttabile. Anzi, il monolite è più roccioso che mai.