Poco dopo le quattro del pomeriggio del 20 settembre, quando in Israele stava per cominciare Shabbath, nella zona di al Jamus, sobborgo di Beirut e quartier generale da Hezbollah, è scoppiato l’inferno.
Due missili di precisione sparati da un caccia hanno colpito un edificio residenziale: in un ambiente ricavato sottoterra c’erano il capo militare di Hezbollah - e stretto confidente di Hassan Nasrallah - Ibrahim Aqil e i suoi comandanti. Secondo l’esercito israeliano, sono rimasti tutti uccisi (in totale 12 persone).
Il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha commentato gli ultimi avvenimenti parlando di “nuova fase della guerra”, dando corpo al concetto espresso da un anonimo funzionario con Walla: la soluzione diplomatica per il momento non si vede all’orizzonte e, quindi, “Israele si è tolto i guanti con Hezbollah”. Come dire, l’escalation è già in corso.
Resta il fatto che una guerra (vera) tra Israele e Hezbollah, che interpreta il ruolo di testa di ponte dell’Iran in Medio Oriente, molto probabilmente non risolverebbe niente, e certamente non migliorerebbe la sorte degli ostaggi che sono ancora nelle mani di Hamas a Gaza. E poi, come cambierebbero i rapporti di forza regionali?
Nessuno dei protagonisti in gioco sembra avere una strategia complessiva chiara. Di sicuro, il governo israeliano non vuole cedere alla pressione degli Stati Uniti affinché accetti un cessate il fuoco a Gaza, uno scenario che comporterebbe una riduzione della tensione sugli altri fronti.
A questo punto, per capire come potrebbe evolvere la situazione bisognerà aspettare l’esito delle presidenziali statunitensi. Nel frattempo, chi può escludere matematicamente che avvenga comunque un’escalation ulteriore?