Gli Stati Uniti si apprestano a inviare in Israele un sistema per la difesa aerea Thaad in grado di intercettare missili balistici durante la fase terminale del loro volo. Saranno per questo dispiegati nello Stato ebraico circa cento militari a stelle e strisce per rendere operativa la batteria e proteggere l’alleato mediorientale da possibili attacchi dell’Iran.
Si tratta del primo dispiegamento di truppe americane in Israele dall’inizio dei combattimenti contro il cosiddetto “asse della resistenza” orchestrato da Teheran.
Tuttavia – secondo quanto riporta il New York Times - sorgono dubbi al Pentagono sull’efficacia della flotta statunitense nel Mediterraneo orientale per contenere il conflitto. La presenza della Marina militare americana potrebbe, invero, incoraggiare Gerusalemme a proseguire le ostilità facendo affidamento su un determinante supporto esterno.
Sullo sfondo resta una forte dissociazione tra le parole (che ufficialmente mirano a spegnere il conflitto) e i fatti (che evidenziano la volontà di continuare ad esempio a fornire armi ad Israele). Un dettaglio non di poco conto che coinvolge numerosi governi occidentali.
A questo punto sorge una domanda (provocatoria): che senso ha continuare a mantenere il contingente, tra gli altri, italiano nella base Unifil in Libano e, al contempo, continuare ad esportare armi nel paese guidato da Benjamin Netanyahu?