Nel 2020, l’intera Africa ha generato appena il 4% delle emissioni di anidride carbonica su scala globale. La quota è minima rispetto al 30% della Cina o all’11% dell’Europa. Ma non risparmia il Continente dalle stesse minacce del climate change che incombono sulle economie più sviluppate, e inquinanti, con il rischio di un impatto anche più drastico rispetto alla media.
Il paradosso ha spinto l’Unione africana, l’istituzione che raccoglie i 55 paesi del Continente, ad avanzare alla COP26 di Glasgow una rivendicazione precisa: riconoscere l’unicità del caso africano, affrontando “bisogni e circostanze” tenuti finora ai margini dell’agenda della Conferenza. Tradotto, più sovvenzioni e meno prestiti che rischiano di gonfiare una mole debitoria cresciuta fino a volumi ancora più insidiosi nei mesi della crisi pandemica.
Oggi i governi africani spendono in media dal 2% al 9% del Pil su politiche di adattamento, ma le Nazioni Unite stimano che le misure di transizione costino ai paesi emergenti fino a picchi di 500 miliardi di dollari nel 2050. Un macigno equivalente al Pil della Nigeria nel 2021 e a un quinto di quello del continente.
Poi occorre considerare che gli Stati africani esprimono posizioni non univoche. Il caso più indicativo è quello del Sudafrica, l’economia africana più industrializzata, in bilico fra il suo ruolo di testa di ponte per l’agenda verde e le necessità di una produzione vincolata al carbone. Il Paese, responsabile da solo sull’1% delle emissioni globali, viene accusato di fissare obiettivi poco ambiziosi sulle misure di contenimento delle emissioni.
Ma le sue titubanze si ripresentano anche in un gigante petrolifero come la stessa Nigeria, tenuta sotto scacco dalla sua dipendenza dall’Oil&Gas, senza contare richieste specifiche e differenze di approccio in un mosaico di oltre 50 economie nazionali.