Negli prima economia al mondo se ne parla ormai da tempo. Un fenomeno riassunto in tre parole: ‘The great resignation’, le grandi dimissioni. In Italia non è della stessa portata ma, dopo la crisi pandemica, il fenomeno delle dimissioni dal lavoro comincia ad emergere. Infatti, continua a salire il numero di coloro che decidono di lasciare il posto.
Per scelta o per necessità, i motivi possono essere vari, ma di fatto la tendenza osservata a partire da due anni a questa parte si conferma con numeri in salita. Sono oltre 1,6 milioni, infatti, le dimissioni registrate nei primi nove mesi del 2022, il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021 quando ne erano state registrate più di 1,3 milioni. La fotografia arriva dagli ultimi dati trimestrali sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro, e il numero indica i rapporti di lavoro cessati per dimissioni, e non il numero dei lavoratori coinvolti.
Tra le cause di cessazione dei rapporti professionali le dimissioni costituiscono, dopo la scadenza dei contratti a termine, la quota più alta. Ma le cifre indicano come risalga anche il numero dei licenziamenti, dopo la fine del blocco deciso con la crisi pandemica.
Tornando alle dimissioni, osservando il solo terzo trimestre dell’anno scorso, le dimissioni sono state 562mila, in crescita del 6,6% (pari a +35mila) sul terzo trimestre 2021. Dati che confermano, dunque, come continui il trend positivo partito dal secondo trimestre 2021, seppure con una variazione inferiore rispetto ai trimestri precedenti.
L’evidenza sembra suggerire che occorre rivedere i modelli organizzativi verso una maggiore qualità, visto che le imprese in cui si sviluppa benessere lavorativo e qualità del lavoro sono una minoranza e sono quelle dai 10 ai 250 dipendenti. Ma la platea delle imprese italiane è però occupata per circa il 95% da microimprese, caratterizzate da bassa produttività, dall’assenza di forme di welfare integrativo e della contrattazione aziendale. Non stupisce, dunque, che dove si eroga poca formazione e si genera minore conciliazione vita-lavoro si intravedono minori prospettive di crescita economica e personale.