Il contratto del commercio, che riguarda oltre 3 milioni di lavoratori, è scaduto da quattro anni, frenando la ripresa dei salari in Italia, rispetto agli altri Paesi europei. Il problema è generalizzato, non coinvolge solo il commercio.
A dicembre secondo l’Istat – che monitora 73 tra gli accordi più rappresentativi – ben 29 erano in attesa di rinnovo, lasciando scoperto il 52,4 per cento dei dipendenti pubblici e privati.
Valore che sale al 57 per cento nei calcoli del Cnel, che raccoglie l’intero universo dei contratti e lo scorso luglio ne contava 553 scaduti su 976 per il solo settore privato, quasi 8 milioni di lavoratori.
Il tempo medio tra scadenza e rinnovo, per tutti, è di 32 mesi. Nel pubblico tutti i contratti sono scaduti. A metà del 2022 è stato firmato l’accordo per il periodo 2019-2021. Un’intesa (paradossalmente) già scaduta al momento della firma che ha tuttavia i salari degli statali a crescere più di quelli del privato.
Nel privato invece c’è un enorme divario tra industria e i servizi. Nella prima a dicembre risultavano in attesa di rinnovo solo il 7,5 per cento dei contratti, nei secondi il 63 per cento.
Nei giorni scorsi il governatore di Bankitalia Panetta ha definito “fisiologico” un aumento dei salari, aggiungendo che un “qualche” recupero del potere d’acquisto perso sosterrebbe anche la crescita economica.
Ora che gli investimenti sono in discesa e l’export non vola, i consumi restano l’unico traino della modesta crescita prevista quest’anno (0,7 per cento nelle stime di Bankitalia).
Salari più alti, quindi più consumi, è un circolo che in teoria dovrebbe convenire anche alle imprese, che devono pur sempre vendere a qualcuno i loro prodotti e servizi. Ma la pratica sembra per ora smentire la teoria.