“La condizionalità prevista (ma mai applicata, mancano ancora diversi decreti attuativi) tra erogazione di reddito di cittadinanza e partecipazione a percorsi di politica attiva del lavoro avrà certamente lo scopo di “disincentivare” il ricorso al lavoro sommerso (fenomeno ampiamente diffuso tra i percettori), ma difficilmente queste azioni avranno successo in termini di esito occupazionale, perché le professioni più vicine al target dei super-svantaggiati risultano geograficamente distanti (sono nel Nord Italia) e perché l’accesso è intasato da un esercito di lavoratori a termine collocati nei bad jobs.” A sostenerlo sono Carlos Corvino e Francesco Giubileo sul sito lavoce.info.
Inoltre, esperienze in altri paesi dove sono state applicate formule rigide di condizionalità, come nel Regno Unito, risultano efficienti in termini di costi, ma poco efficaci: più che inserire nel mercato del lavoro i più svantaggiati, li spingono a uscire dal sistema di assistenza, trasformandoli in inattivi.
C’è, poi, un nuovo fattore esploso con la pandemia Covid-19, ovvero la rivoluzione digitale che ha prodotto una vera e propria polarizzazione nel mercato del lavoro: le qualifiche più richieste (come i tecnici informatici, ingegneri, medici e infermieri) sono ancora più visibili e hanno maggiori opportunità di lavoro rispetto al passato; ma i soggetti più svantaggiati, oltre a non essere “appetibili” per il mercato, ora sono anche invisibili perché non in possesso di alcune competenze digitali o non in grado di confrontarsi correttamente con assistenti virtuali (Ats).
“Se le aziende non trovano personale tecnico, dunque, non è colpa del reddito di cittadinanza, ma di un sistema che punta su bassi salari e contratti di breve durata – aggiungono Corvino e Giubileo -. Si deve investire in servizi alle imprese e politiche attive del lavoro di medio-lungo termine.”