La Bce ha suggerito per lungo tempo la necessità di adottare accordi salariali più flessibili. Il che, nelle intenzioni di Francoforte, sarebbe servito a ridurre la polarizzazione nel mercato del lavoro tra insider e outsider, alimentata da una disoccupazione elevata e persistente.
Ora, da un nuovo studio presentato durante una conferenza della Bce a Sintra, in Portogallo, emerge che accordi salariali sempre più decentrati e la progressiva diminuzione dei lavoratori iscritti ad un sindacato negli ultimi due decenni hanno danneggiato i lavoratori a bassa e media formazione e tenuto a freno la crescita salariale, diventando di per sé fonte di disuguaglianza. Ciò mette in discussione il principio secondo cui sarebbe nell'interesse di un paese migliorare la propria competitività attraverso bassi incrementi retributivi per un lungo periodo.
Anche la Germania, come altri paesi, ha aumentato la propria competitività puntando su un modesto incremento salariale negli anni più duri durante la “grande recessione”. È, così, riuscita a diminuire la disoccupazione, ma ciò è avvenuto in gran parte attraverso la creazione di posti di lavoro caratterizzati da bassa formazione (low-skilled) e modeste retribuzioni. La conseguenza è stata l’inevitabile diminuzione della produttività.
Lo studio intravede, tuttavia, un (recente) segnale positivo soprattutto in Germania, dove il crollo della contrattazione collettiva osservato negli ultimi anni sembra ora al centro di un'inversione di tendenza. Berlino sembra aver capito che la via non è il progressivo smantellamento degli accordi collettivi.