Ogni giorno un milione di persone in Gran Bretagna aspetta un messaggio o una telefonata. Deve essere logorante restare nell'attesa di sapere se il giorno è quello giusto per lavorare oppure no. Il risultato è che oggi nel Regno Unito il 60% di coloro che sono al di sotto della soglia di povertà vivono in una famiglia in cui almeno una persona è occupata.
La narrazione dominante vuole che i livelli record di occupazione e il più basso tasso di disoccupazione dalla metà degli anni '70 nel Regno Unito siano dovuti alla flessibilità del mercato del lavoro. C'è una ragione, pensano in molti, se il Regno Unito ha un tasso di disoccupazione pari alla metà, ad esempio, di quello francese: il primo è "flessibile", l’altro "sclerotico". Ma questo non spiega il caso della Germania, dove, nonostante le riforme dei primi anni 2000, i lavoratori hanno una maggiore protezione. La Francia ha un tasso di disoccupazione più alto, ma ha livelli di produttività più elevati. Fatto sta che il Pil pro capite è aumentato in modo simile in Gran Bretagna e Francia dal 1970, periodo in cui Londra ha liberalizzato il mercato del lavoro e Parigi no.
Il mercato del lavoro flessibile britannico ha portato ad un mix deleterio nell'ultimo decennio: bassi investimenti, salari bloccati e produttività calante. Alla fine molte imprese hanno preferito sostituire il capitale con il lavoro a basso costo.
Il risultato è stato una crescita fuori controllo della "gig economy". D’altronde in un terreno seminato con deregolamentazione del mercato del lavoro, incentivi fiscali che premiano il lavoro flessibile rispetto a quello “stabile” e contenimento del settore pubblico non poteva che spuntare (nel corso degli ultimi 10 anni) la crescita più debole dei salari reali dalla guerra napoleonica. Un dato su cui meditare.