Il Sahara, tra le porzioni di pianeta più inospitali al mondo, da alcuni decenni solletica le idee di governanti vari – africani e, soprattutto, non - per trarne, e trasportarne al di fuori, la risorsa di cui abbonda straordinariamente: la luce. Sono stati fatti diversi progetti per catturare i raggi del sole che qui per più tempo e con più forza insistono sul suolo. Il più clamoroso è Desertec. Nato tra il 2008 e il 2010 su impulso della Commissione Europea e dei due più entusiasti leader del tempo, il francese Nicolas Sarkozy e il britannico Gordon Brown, aveva un obbiettivo a dir poco ambizioso: rendere autosufficiente l'Europa tramite una rete di megacentrali dal Marocco al Medioriente collegate tra loro e all'Europa tramite super-elettrodotti. Il progetto, seppur formalmente ancora in piedi, è di fatto naufragato. Sia per i costi elevatissimi, sia per l'instabilità politica delle aree interessate, a partire da Libia ed Egitto, sia per questioni politiche europee: la Spagna per esempio rifiutò che il collegamento principale Africa-Europa passasse sul suo territorio.
Ma l'idea di catturare la luce del Sahara non è affatto, è il caso di dire, tramontata. Anzi è stata integrata. Sfruttare non più solo il sole, ma anche l'incessante vento del deserto. La gestione di queste due inesauribili fonti rinnovabili avrebbe un incredibile doppio effetto positivo: non solo l'ovvia considerevole produzione elettrica, ma anche un significativo aumento della vegetazione nelle aree circostanti gli impianti. È il sorprendente risultato di uno studio americano recente, pubblicato su Journal, Science e poi riportato dal sito della BBC.
Se si installassero grandi centrali solari e altrettanto grandi parchi eolici, su larghe estensioni del deserto, infatti, si avrebbe un aumento delle precipitazioni di circa due volte rispetto alle attuali. La parte del leone la farebbero proprio le pale eoliche: spostando continuamente ingenti masse d'aria creerebbero aree di bassa pressione atmosferica che favorirebbe la creazione di nuvole e pioggia. È inutile dire quale beneficio tutto ciò determinerebbe alle popolazioni residenti e all'ecosistema in generale. Le precipitazioni nel Sahel, una delle zone più siccitose del già aridissimo Sahara, aumenterebbero tra i 20 e i 500 millimetri l'anno, con un incremento della vegetazione del 20%.
Se, nell'ambito del progetto complessivo, il vento gioca il ruolo maggiore nell'effetto collaterale, cioè nell'attecchimento della vegetazione in un contesto assai ostile, il fine principale, cioè la produzione di energia elettrica, lo perseguirebbero le installazioni solari. Nei 9 milioni di chilometri quadrati del Sahara c'è una tale quantità di luce che, convertita in elettricità, potrebbe soddisfare i bisogni dell'intero pianeta Terra, e per quattro volte. Certo, saranno necessarie enormi distese di pannelli solari che occupano molto spazio e sono piuttosto deperibili. Ma arrivano in soccorso le novità tecnologiche.
La parola magica è OPV, il fotovoltaico organico. I pannelli solari tradizionali sono fatti con celle al silicone, quelli di ultima generazione sono basati sul carbonio. Hanno due caratteristiche a loro favore e una ancora in svantaggio. Durano di più rispetto al sistema convenzionale, fino a 20 anni. E, essendo possibile distribuire le celle solari al carbonio su film plastici anche sottilissimi, sono estremamente plasmabili. Possono essere disposti su superfici curve e addirittura su vetri, finestre, automobili, su interi palazzi, addirittura vestiti, perchè i film possono essere semitrasparenti. Lo svantaggio? La cosiddetta resa, cioè l'efficienza di trasformazione della luce. I pannelli commerciali hanno un tasso medio del 15-22%, quelli “bio” della metà. Ma le ricerche più recenti spingono l'efficienza al 17% e anche oltre. E, a quel punto, sarà una svolta energetica epocale.
Questo articolo è stato precedentemente pubblicato su LA STAMPA