Altro che eolico e solare. Il Nordafrica è la nuova frontiera dell’idrogeno verde. Rivoluzione o un’altra forma di colonialismo?

Ma non è tutto oro (anzi idrogeno) ciò che luccica, soprattutto per le popolazioni locali. Il rischio è quello di riprodurre il colonialismo anche nei processi di transizione alle energie rinnovabili, assumendo la forma di green grabbing (accaparramento ecologico)

Il continente è la nuova frontiera dell’idrogeno verde

Da tempo si parla del potenziale del Sahara di generare enormi quantità di energia rinnovabile grazie al suo clima arido e alle vaste distese di terra. Per anni gli europei, in particolare, l’hanno considerato una possibile fonte di energia solare che avrebbe potuto soddisfare una fetta considerevole del fabbisogno energetico europeo.

Nel 2009 un incontro di aziende e istituzioni finanziarie europee aveva lanciato il progetto Desertec, ambiziosa iniziativa per fornire all’Europa l’energia ricavata dagli impianti eolici nel Sahara basata sull’idea che una minuscola superficie di deserto avrebbe potuto fornire il 15 per cento dell’elettricità di cui ha bisogno l’Europa grazie a cavi ad alta tensione per la trasmissione diretta della corrente.

Alla fine l’iniziativa Desertec si è arenata per le critiche sui suoi costi astronomici e le sue connotazioni neocoloniali. Dopo un tentativo di riportarla in vita come Desertec 2.0, con una maggiore attenzione al mercato locale delle energie rinnovabili, il progetto è stato ripreso come Desertec 3.0, con l’obiettivo di soddisfare il fabbisogno europeo di idrogeno, un’alternativa energetica “pulita” ai combustibili fossili.

All’inizio del 2020 la Desertec industrial initiative (Dii) ha lanciato la Mena hydrogen alliance per contribuire a strutturare progetti energetici nell’area del Medio Oriente e del Nordafrica che produce idrogeno destinato all’esportazione.

Mentre in Europea progetti di questo tipo possono sembrare un’ottima idea, in grado di aiutare il continente a raggiungere i suoi obiettivi di taglio delle emissioni di gas serra, visti dal Nordafrica appaiono sotto una luce completamente diversa. Crescono i timori che questi programmi non aiuteranno affatto la regione nella sua transizione ecologica, ma sfoceranno nel saccheggio di risorse locali, nella spoliazione delle comunità, in danni ambientali e nel rafforzamento di élite corrotte.

In un mondo che cerca soluzioni per passare alle energie rinnovabili, l’idrogeno è stato presentato come un’alternativa “pulita” ai derivati del petrolio. Gran parte dell’attuale produzione di idrogeno deriva dall’estrazione di combustibili fossili, un processo che provoca consistenti emissioni di anidride carbonica (idrogeno grigio). La forma più pulita – l’idrogeno “verde” – deriva dall’elettrolisi dell’acqua, un processo che può essere alimentato dall’elettricità proveniente da fonti di energia rinnovabili.

Negli ultimi anni, a seguito delle forti pressioni esercitate da vari gruppi di interesse, l’Unione europea ha sposato l’idea che la sua risposta alla crisi climatica dovesse ruotare attorno alla transizione all’idrogeno e nel 2020 ha presentato la sua strategia in tal senso nel contesto dell’European green deal (patto verde europeo, Egd). Nel piano si propone il passaggio all’idrogeno “verde” entro il 2050 grazie alla produzione locale e alla strutturazione di una fornitura stabile proveniente dall’Africa.

Le idee che hanno ispirato questa visione provengono da Hydrogen Europe, un’organizzazione commerciale e di pressione lobbistica che ha lanciato l’“iniziativa per l’idrogeno verde 2x40 GW”. Secondo questa visione, entro il 2030 l’Ue impianterà elettrolizzatori in grado di produrre internamente 40 gigawatt di idrogeno rinnovabile e importerà altri 40 gigawatt da elettrolizzatori situati in aree vicine, tra cui quelle desertiche dell’Africa settentrionale, usando i gasdotti che già oggi connettono l’Algeria all’Europa.

Iniziative come Desertec sono immediatamente saltate sul carro della transizione all’idrogeno, che porterà con ogni probabilità miliardi di euro di finanziamenti europei. Il suo manifesto riflette la narrazione generalmente usata per promuovere l’idrogeno e i progetti di energia rinnovabile. In base a questa narrazione, progetti simili porterebbero grandi benefici alle comunità locali e potrebbero generare “sviluppo economico, posti di lavoro orientati al futuro e stabilità sociale nei paesi nordafricani”.

Si chiarisce però al tempo stesso la natura estrattiva di questo programma: “Per ottenere un sistema di energia pienamente rinnovabile in Europa è necessario che il Nordafrica produca a prezzi competitivi elettricità solare ed eolica, poi convertita in idrogeno, da esportare in Europa attraverso il gasdotto”. E il suo impegno nei confronti della “Fortezza Europa” è ribadito dall’ipotesi che questi progetti potrebbero “ridurre il numero di migranti che da questa regione si spostano in Europa per ragioni economiche”. In altre parole, la visione dietro Desertec e dietro molti altri progetti “ecologici” europei in Nordafrica persegue il mantenimento delle relazioni basate sullo sfruttamento e su logiche neocoloniali che l’Europa intrattiene oggi con la regione.

Nel periodo coloniale, le potenze europee fondarono un sistema economico per estrarre ricchezza, materie prime e manodopera (schiavizzata) dal continente africano. Anche se il ventesimo secolo ha portato l’indipendenza per le colonie africane, questo sistema non è mai stato davvero smantellato, ma solo trasformato, spesso con il contributo di leader autoritari e delle élite locali post-coloniali.

Adesso il timore è che la transizione ecologica dell’Ue possa continuare ad alimentare questo sistema economico predatorio a vantaggio delle grandi imprese europee e a danno delle comunità locali nei paesi africani con cui queste ultime stringono accordi di collaborazione. La spinta a favore dello sviluppo di nuove filiere dell’idrogeno proposta da progetti come Desertec non fa molto per mitigare questi timori.

Il motivo è che uno dei principali gruppi di pressione dietro la svolta dell’Ue a favore dell’idrogeno rappresenta le aziende di combustibili fossili, le cui origini sono strettamente legate allo sfruttamento coloniale da parte delle potenze europee. Due dei partner della Desertec, per esempio, sono il gigante energetico francese Total e la compagnia petrolifera olandese Shell.

In Africa come altrove le aziende attive nel settore dei combustibili fossili continuano a usare le stesse strutture predatorie create durante l’era coloniale per estrarre risorse locali e trasferire le ricchezze fuori del continente. Fanno anche di tutto per mantenere lo status quo politico all’interno dei paesi in cui operano, per poter continuare a trarre benefici dalle lucrose relazioni con élite corrotte e leader autoritari. Questo in sostanza gli consente di sfruttare la manodopera locale, provocare danni ambientali, compiere violenze contro le comunità locali pur restando impuniti.

Perciò non sorprende che il settore dei combustibili fossili e i suoi gruppi di pressione stiano spingendo per far accettare l’idrogeno come il combustile “pulito” del futuro per mantenere la loro rilevanza e continuare a fare affari. Il settore vuole preservare le preesistenti infrastrutture di gas naturale e i gasdotti, oltre alle relazioni economiche predatorie che ci sono dietro.

Tenuto conto della lunga storia di danni e sfruttamento ambientale del settore, non sorprende neppure che la spinta verso l’idrogeno nasconda dei gravi rischi di inquinamento. Nel manifesto di Desertec, per esempio, si sottolinea che “in una fase iniziale (tra il 2030 e il 2035) un volume considerevole di idrogeno può essere prodotto convertendo il gas naturale in idrogeno, laddove l’anidride carbonica viene immagazzinata nei giacimenti di petrolio o gas naturale vuoti”. Questo, assieme all’uso delle scarse risorse idriche per produrre l’idrogeno, è un ennesimo esempio di sversamento di rifiuti nel sud globale e trasferimento dei costi ambientali da nord a sud.

Anche i benefici economici per la popolazione locale sono da valutare. Servirebbe un enorme investimento anticipato per creare l’infrastruttura necessaria alla produzione e al trasporto di idrogeno verde in Europa. Tenuto conto delle precedenti esperienze di simili progetti molto costosi e ad alta intensità di capitale, l’investimento finisce per creare più debiti per i paesi ospiti, aggravando la dipendenza dai prestiti multilaterali e dal supporto finanziario occidentale.

I progetti energetici nordafricani creati con il sostegno europeo nell’ultimo decennio mostrano già come si riproduce il colonialismo energetico anche nei processi di transizione alle energie rinnovabili, assumendo la forma di colonialismo ecologico o green grabbing (accaparramento ecologico).

Nel mezzo di una crisi climatica sempre più grave, i paesi del Nordafrica non possono permettersi di continuare a farsi coinvolgere in questo tipo di progetti predatori. Non possono continuare a essere esportatori di risorse naturali a buon mercato verso l’Europa e il luogo dove quest’ultima trasferisce i costi socio-ambientali della sua transizione ecologica.

Hanno bisogno di una transizione equa che implichi uno spostamento verso un’economia ecologicamente sostenibile e giusta. In questo contesto, le relazioni e le pratiche neocoloniali devono essere contestate e fermate.

Per quanto riguarda i paesi e le aziende europee, devono abbandonare la logica imperialistica e razzista insita nell’esternalizzazione dei costi. Altrimenti continueranno ad alimentare un colonialismo ecologico e a depredare la natura e la manodopera nel contesto di un programma in apparenza ecologico, che indebolirà gli sforzi collettivi per una risposta globale efficace e giusta al cambiamento climatico.

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