Quale è l’anello debole dell’economia europea? “L’Italia”, hanno risposto in modo quasi unanime gli esperti interpellati dal Financial Times. Bastano pochi numeri a spiegare le ragioni di tanta concordia. Il nostro Paese - secondo le Linee guida sulla gestione del debito pubblico 2023 preparate dal Tesoro - dovrà emettere nei prossimi 12 mesi titoli a medio-lungo termine fra i 310 e i 320 miliardi.
La previsione considera l’erogazione puntuale delle rate attese per il Recovery, senza le quali l’ammontare dei BTp di quest’anno può salire verso i 350 miliardi di euro. Cioè ancora più lontano dai 278 miliardi di euro collocati nel 2022. Considerando anche Bot e altri titoli a breve, il livello massimo delle emissioni definito dalla legge di bilancio si attesta a 510 miliardi: 86 in più dei 424 miliardi totali dell’anno scorso.
Il tutto avviene mentre l’era del debito (apparentemente) gratuito si è chiusa definitivamente. I BTp del 2022 hanno registrato un costo medio all’emissione dell’1,71%, cioè oltre 17 volte il minimo storico dello 0,1%. Per trovare un livello più alto bisogna risalire al 2,08% del 2013. Questa dinamica ha imposto in questi mesi continui aggiornamenti al rialzo nei calcoli sul peso degli interessi sul nostro bilancio pubblico.
Nel 2023-2025, secondo il Def approvato lo scorso aprile dal governo Draghi, l’Italia avrebbe dovuto pagare per interessi 186,066 miliardi. Nelle tabelle allegate alla Legge di bilancio, che poggia anche su oltre 21 miliardi di deficit aggiuntivo rispetto al tendenziale, il conto sullo stesso triennio sale invece a 270,207 miliardi, con un aumento del 45,2% che in termini nominali vale 19,4 miliardi sul 2023, 30 sul 2024 e 34,7 sul 2025.
Per capire la dimensione del problema, e l’entità degli spazi fiscali che si chiudono con la galoppata della spesa per interessi, basta considerare che questo costo aggiuntivo vale solo nel 2023 il quadruplo dei fondi stanziati dalla manovra per il taglio al cuneo fiscale, mentre se si guarda al 2024 e al 2025 il rapporto sale rispettivamente a sei e sette volte.
Il volano dell’incremento della spesa è connesso al cambio drastico di politica economica prodotto dall’inflazione, che al rialzo dei tassi accompagna l’inversione di rotta dall’acquisto dei titoli di Stato alla riduzione del portafoglio da parte della Bce. Un cambio di direzione (non solo europeo bensì) globale visto che nel 2022, tra le 26 maggiori banche centrali al mondo, 22 hanno alzato i tassi in media di 3,75 punti.
Il nuovo scenario aumenta tutti gli interessi sul debito, ma ha un effetto più pesante sui Paesi più indebitati. Ora che il quadro peggiora la lunga era dei tassi piatti sembra già un lontano ricordo che alimenta qualche rimpianto (rispetto alle cose che si sarebbero potute fare e che non sono state fatte) in un momento in cui la politica monetaria restrittiva stringe la gabbia del programma di finanza pubblica. E in questa gabbia non sarà facile dare benzina alle promesse del programma di governo.