Una sforbiciata allo scaglione Irpef ‘di mezzo’, quello che colpisce il ceto medio, e un taglio alle tasse sul lavoro, e poi semplificazioni, rivisitazione del rapporto tra cittadini ed amministrazione finanziaria, nuova lotta all’evasione, riduzione dell’Iva. E stop alle ‘microtasse’ come il superbollo e la tassa sul rumore degli aerei.
Sciolto il nodo sul forfait per gli autonomi, mentre non si accenna più alla patrimoniale che invece compariva nelle prime bozze del documento. Ed è stato bocciato un emendamento del Pd sul riordino complessivo anche dei valori catastali.
Le commissioni Finanze di Camera e Senato hanno licenziato un lungo documento (Leu astenuta, Fdi contraria, favorevoli tutti gli altri) nel quale si tracciano le linee guida della prossima riforma fiscale che vedrà la luce, grazie ad una delega al Governo, entro il 31 luglio.
Dunque, nessuna rivoluzione fiscale all’orizzonte. Si tratta piuttosto di un restyling. Ma è ciò di cui il nostro paese ha bisogno? Da un confronto, ad esempio, tra il sistema fiscale del nostro paese e quello francese emerge che entrambi portano all’indebolimento dell’economia. La produzione e l’occupazione industriale sembrano essere le prime vittime di un sistema fiscale che si concentra sul lavoro salariato e troppo poco sui consumi.
Cosa fare? La via da seguire ci viene indicata dai nostri vicini europei, alcuni dei quali hanno vissuto gli stessi problemi decenni fa. Già negli anni ‘80, alcuni paesi del Nord Europa, come la Danimarca, hanno sviluppato strategie basate sul riequilibrio del sistema fiscale, spostandolo dal lavoro al consumo. I risultati parlano da soli: tutti questi paesi sono ora più ricchi di noi (in termini di Pil pro-capite), hanno conti in equilibrio (sia per quanto riguarda il bilancio pubblico che la bilancia dei pagamenti) e soprattutto al loro interno registrano un maggior consenso sul sistema tributario.