Una zavorra pesante. Che rende da lungo tempo il paese ricattabile sui mercati finanziari. E che brucia risorse in interessi passivi che potrebbero essere destinate a ben altre finalità.
Come è noto, il debito pubblico dell’Italia è esploso negli anni ’70 e ’80. Nel 1970 era al 37% del prodotto interno lordo. Nel 1992 scavallò il 100%. Da allora non è mai sceso sotto quella soglia critica.
Erano anni di una spesa pubblica molto allegra, usata spesso dalla classe politica per il noto voto di scambio. Il problema tuttavia non è rintracciabile solo nelle uscite, bensì anche nelle entrate.
In quei due decenni la nostra pressione fiscale era bassa e nettamente inferiore a quella ad esempio della Germania: nel 1980 era, rispettivamente, pari al 25,2% e al 36,4% del Pil.
È allora il mix di alte (e spesso sconsiderate) uscite e modeste entrate ad aver alimentato una sequenza di deficit che hanno finito per far crescere a ritmi elevati il debito pubblico italiano.
Una situazione che ha favorito la lievitazione della pressione fiscale nello Stivale (resa inevitabile anche dalla elevata evasione fiscale): dal 25,2% del 1980 al 40% del 1993. Tre anni prima, nel 1990, il sorpasso sulla Germania.
Oggi, l’Italia è il quarto paese per pressione fiscale in Europa (dietro Belgio, Francia e Danimarca): nonostante ciò il debito pubblico resta elevatissimo. Il primo in Europa in termini assoluti.