Nelle carte ufficiali dell'Onu non sanno più che sinonimi usare a proposito degli oceani: impoveriti, sfruttati, depredati, a rischio sostenibilità. Negli ultimi 40 anni i grandi mari del pianeta hanno subito un vero e proprio saccheggio. Secondo le stime della Fao, il 90% delle riserve ittiche di consumo umano oscilla tra l'iper-pescato e il quasi esaurito, rimane solo una quota del 10% che è tecnicamente ancora sotto-pescato. Si rischia il disastro irreparabile, che coinvolge tra l'altro un consistente numero di persone in forma diretta: 60 milioni gli addetti a pesca e acquacoltura – per il 97% nei paesi in via di sviluppo - e 200 milioni l'indotto.
Ecco perché nel 2015, ben 193 paesi hanno preso un impegno particolare nell'ambito della più ampia Agenda 2030, quella lista di 17 obbiettivi, chiamati Sustainable Development Goals, per rendere il pianeta migliore entro il 2030. Il “goal” numero 14 è intitolato “Life under water” e riguarda proprio il mantenimento di un livello sostenibile per la fauna (e la flora) marina. Ebbene, in quella sede fu individuata la chiave per porre un limite a quello che sembrava e, sembra tuttora, un piano inclinato inesorabile verso il totale azzeramento degli stock ittici: il taglio dei sussidi con il divieto di alcune tipologie entro il 2020. È l'unico modo – secondo gli esperti Onu – per riuscire a rallentare l'espansione senza freni della capacità globale di pesca.
Sussidi che rappresentano un grande garbuglio: somministrati da quasi tutti gli Stati costieri, in varie forme, a vario titolo, per un totale aggregato di 20 miliardi di dollari annui. Il metodo più comune è quello di garantire prezzi agevolati al gasolio marino. L'insieme di queste sovvenzioni non solo spinge la pesca molto oltre i limiti di sostenibilità, creando flotte sempre più grandi, ma beneficia proprio queste ultime. Le flotte di grandi pescherecci infatti catturano l'85% di questi incentivi, ma vi lavora solo il 10% del totale dei pescatori: il 90% sono i veri poveri che lavorano per sostentarsi e che tra l'altro sono quelli che meno impoveriscono la fauna marina, perché a loro è attribuibile solo il 30% del pescato complessivo.
Tre anni dopo la definizione degli obbiettivi Onu, si è voluto fare il punto: il 16 e 17 luglio 2018 a Ginevra si è svolto il secondo Oceans Forum. Sempre a guida delle Nazioni Unite, con le agenzie Unctad e Fao a fare da coordinatrici. Ci si è resi conto che gli obbiettivi sono lungi dall'essere rispettati e la priorità che diventa stringente è ancora quella di vietare alcune forme di incentivi, nonché studiare in profondità la catena di valore del settore, per poter intervenire in modo mirato laddove si crea pesca eccessiva o addirittura irregolare o illegale. Ma il delegato Onu responsabile, Peter Thomson, intravede miglioramenti verso il traguardo del 2030. E cita alcuni paesi – come Malta, Maldive, Ecuador e Perù – che hanno messo in atto buone pratiche per la sostenibilità della pesca e potenziato i settori alternativi: l'acquacoltura e, ultima novità, la produzione di alimenti a base di alghe.
Articolo pubblicato in precedenza su La Stampa - Tuttogreen