Questa pandemia mette sotto accusa un intero sistema di produzione e di consumo, basato su quella che viene definita in inglese “livestock revolution”, cioè la diffusione a livello planetario degli allevamenti intensivi, che rappresentano una possibile fucina di virus e di altri agenti patogeni. Circa il 60% delle malattie infettive negli umani derivano da una zoonosi. E se molte hanno origine nella fauna selvatica, il bestiame di allevamento serve spesso da ponte epidemiologico tra la fauna selvatica e l’infezione umana.
Non abbiamo, tuttavia, evidenze che ciò sia accaduto nel caso del Covid-19. Quel che è certo è invece che gli allevamenti hanno fatto da ponte per altre infezioni virali che si sono diffuse negli anni scorsi. Fra queste: le influenze aviarie e quella suina.
A rendere vulnerabile l’allevamento industriale sono le sue caratteristiche strutturali: non solo l’elevata densità del bestiame, ma anche la sua scarsa varietà genetica. Creati in appositi laboratori, gli animali sono di fatto cloni l’uno dell’altro. Così una qualsiasi infezione può rivelarsi devastante.
Per ovviare al problema, l’industria della carne si affida alla medicina. Il risultato è che il 73% degli antibiotici prodotti al mondo è utilizzato nella zootecnia. Con l’amara conseguenza che questi farmaci si diffondono nell’ambiente e favoriscono la nascita di super-batteri resistenti.
Ma la generalizzazione di questo modello di produzione ha impatti anche più ampi, perché porta alla modifica sostanziale di interi habitat naturali e alla destrutturazione del rapporto tra aree selvatiche e aree agricole in una logica dove gli animali sono meri ingranaggi di una catena di montaggio che li nutre, li fa ingrassare e li manda al macello. Con un esito mostruoso: ogni anno vengono allevati e macellati a livello globale 70 miliardi di animali.
Dove si prendono i prodotti necessari a nutrire tutte questi animali? Oggi un terzo delle terre arabili sono utilizzate per coltivare soia e mais destinati alla zootecnia. La Cina importa su base annua dal Brasile più di 50 milioni di tonnellate di soia. Per far fronte a questa crescente domanda, milioni di ettari di foreste sono stati convertiti alla produzione Agricola.
Questo processo è guidato da un pugno di grandi aziende che controllano l’intera filiera produttiva, definendo le modalità d’allevamento, le linee genetiche, il numero di capi, le quantità di mangime e di antibiotici che vengono loro somministrati. Colossi multinazionali che fanno economie di scala e impongono in tutto il pianeta un modo di produzione unico e standardizzato, scaricando le esternalità negative sull’ambiente e sugli ecosistemi che ne risultano compromessi.