Nell’Europa Occidentale l’insediamento delle religioni degli immigrati fatica, complessivamente, a trovare un terreno favorevole. La diffidenza delle tradizioni laiciste nei confronti dell’influenza delle religioni si è incontrata con le preoccupazioni derivanti dall’indebolimento della coesione sociale, a causa del radicamento di comunità religiose indipendenti e transnazionali. Le polemiche francesi contro il “comunitarismo” ne sono l’espressione più militante.
Il pluralismo religioso, tuttavia, cresce e mette radici sul territorio, soprattutto nelle periferie popolari delle nostre città. Le stime a livello nazionale disegnano una mappa in cui spiccano in Italia i musulmani (1.700.000), i cristiani ortodossi (1.500.000), i protestanti di varie denominazioni (oltre 200.000), gli induisti (160.000), i buddhisti (120.000), i sikh (90.000). A questi vanno aggiunti circa 900.000 immigrati cattolici, che occupano una posizione per vari aspetti intermedia, tra la tradizione religiosa storicamente prevalente e i nuovi culti introdotti dagli immigrati.
Migliaia d’immigrati trovano nelle proprie tradizioni religiose un ancoraggio identitario, un collante sociale, una fonte di speranza e di solidarietà. Le comunità religiose sono un porto sicuro, un punto di riferimento in primo luogo per uscire dall’isolamento e dalla solitudine. Sono protagoniste di forme di soccorso sociale, di un “welfare dal basso” che affonda le radici nei precetti religiosi di aiuto verso il prossimo.
Le norme italiane sono tuttavia ferme ai “culti ammessi” della legislazione fascista. A diverse religioni manca anche il semplice riconoscimento giuridico e non solo il più impegnativo livello dell’intesa con lo stato italiano. La diversità è già tra noi, riconoscerla e istituzionalizzarla potrà aiutare a far crescere il dialogo e la coesione sociale.