La guerra di Gaza è solo il detonatore dell’esplosione della rabbia nei campus statunitensi. Duemila arresti, almeno 52 atenei coinvolti, oltre cinquecento manifestazioni in un mese parlano di qualcosa di più profondo.
Oltre all’innegabile sdegno per il sostegno a Israele e a quello che definiscono “genocidio”, i dimostranti riversano nella protesta frustrazioni sedimentate: contro la polizia, l’impatto del cambiamento climatico, il razzismo insito in ogni aspetto della società statunitense.
E, in questo caso, i manifestanti non protestano solo contro il rapporto Usa-Israele, ma contro i dirigenti delle loro università che non difendono il loro diritto di esprimersi.
La frattura di questi ultimi giorni, che ha poi innescato la repressione appoggiata dall’amministrazione Biden (“Non reprimiamo il dissenso, ma non deve portare al disordine”, ha detto il presidente Usa), è più profonda di quanto possa apparire e causerà probabilmente conseguenze durature. Soprattutto se le proteste dovessero espandersi (mobilitazioni sono intanto già segnalate nei campus canadesi, australiani ed europei), il rischio contingente è per i democratici di pagarla in termini elettorali.