“L’inflazione resta alta, potremmo alzare ancora i tassi se necessario”. In un momento molto delicato per le decisioni di politica monetaria, il presidente della Fed, Jerome Powell, nel suo discorso al simposio di Jackson Hole ha scelto di mantenere un atteggiamento da falco, evitando tuttavia di prendere una posizione precisa. E di lasciarsi tutte le opzioni aperte per i prossimi mesi.
Christine Lagarde ha poco dopo usato parole simili a quelle scelte da Powell: “La lotta all’inflazione non è ancora vinta e i tassi resteranno restrittivi per tutto il tempo necessario”. L’era dei rialzi dei tassi non è finita, malgrado le speranze alimentate dal fatto che l’inflazione è precipitata in poco più di un anno da quasi il 10 per cento al 3 negli Usa e al 5,4 nell’Eurozona (5,9 in Italia).
Le banche centrali dei principali paesi avanzati hanno dunque deciso di continuare ad aumentare i loro tassi ufficiali, nonostante la rapida discesa dell’inflazione. Ritengono infatti che le tensioni sul mercato del lavoro, assieme alla forte crescita dei profitti, possano innescare una spirale prezzi-salari, nonostante, negli ultimi mesi, la Banca centrale europea, l’Ocse e la Banca dei regolamenti internazionali abbiano pubblicato studi che mostrano come i profitti rappresentino una componente rilevante dell’inflazione. Circa il 40-45 per cento, secondo le stime dell’Fmi.
In altri termini, le imprese sono riuscite non solo a scaricare sui prezzi finali tutti gli aumenti subiti dall’incremento dei costi, ma anche ad aumentare i loro margini. Nel frattempo, i salari nominali si sono mossi poco, così i salari reali hanno registrato una drastica riduzione. Nulla di nuovo. Già Adam Smith nella Ricchezza delle Nazioni scriveva: “In realtà alti profitti tendono a far salire i prezzi molto di più degli alti salari” (Libro Primo - Capitolo Nono).
A ciò si aggiunga che, in una situazione di alti profitti, le imprese sono meno dipendenti dal credito e pertanto la politica monetaria diventa meno efficace, a differenza di quelle fiscali e industriali che possono giocare un ruolo significativo. Interessante in proposito è il caso spagnolo, dove il governo Sànchez è riuscito a ottenere risultati considerevoli con politiche economiche non convenzionali quali lo sganciamento del prezzo del gas da quello dell’elettricità, la riduzione della tassazione indiretta, l’imposizione di limiti ai prezzi dell’energia, la tassazione dei super-profitti delle banche. Così l’inflazione in Spagna è oggi vicina al 2 per cento, mentre la crescita dei profitti è in linea con il costo unitario del lavoro.
Occorre, infine, considerare un ulteriore aspetto. Un lavoro appena pubblicato da quattro economisti europei ha mostrato come la formazione delle aspettative degli operatori è più influenzata dagli shock di offerta che da quelli di domanda.
Componendo il quadro con tutti gli elementi descritti in questo articolo, si arriva così alla conclusione che la politica monetaria potrebbe dimostrarsi molto meno efficiente di quanto comunemente ritenuto nell’influenzare le aspettative d’inflazione e, quindi, l’inflazione stessa. Importante, invece, è la cooperazione con politiche fiscali redistributive, industriali e della concorrenza. Qualcuno lo dica a Powell e Lagarde.