Contraddice Recep Tayyip Erdogan e aumenta i tassi di interesse al 24%. È la mossa disperata della Banca centrale turca che ha stabilito il 13 settembre un incremento di 6,25 punti percentuali nel tentativo di frenare la spinta inflazionistica e la crisi valutaria in cui è caduto il paese. La lira turca ha perso rispetto al dollaro il 42% del suo valore dall’inizio dell’anno.
L’aumento dei tassi è stato scongiurato da Erdogan che li considera come "la madre e il padre di tutti i mali" e ritiene che alti tassi portino a un'inflazione elevata, anche se la letteratura economica sostiene l’opposto. Ma nel mondo dell’Erdoganomics la lira sta vivendo una "finta volatilità", la caduta della valuta è causata da un complotto straniero ed è il risultato di una guerra economica.
Oltre alle pressioni esercitate da Erdogan, la decisione della Banca centrale non deve essere stata semplice. Aumentare i tassi, come chiedono i mercati, per fermare il collasso della valuta? Oppure non incrementarli – come vorrebbe il presidente turco - per non deprimere un’economia che si avvia verso la recessione? Ha vinto il timore che l’inflazione salga a livelli esagerati. Ad agosto ha raggiunto il 18%, il livello più alto dal settembre 2003 - l'anno in cui Erdogan prese il potere come primo ministro.
Intanto la crescita di Ankara ha subito un crollo nel secondo trimestre del 2018 rispetto ai tre mesi precedenti (dal 7,4% al 5,2%) e l'economia resta vulnerabile a causa della forte dipendenza dai capitali esteri: il 70% del suo debito è denominato in euro e dollari, rispetto ad una media del 35% osservata nelle altre “economie emergenti”. Le prospettive per la Turchia sembrano volgere al peggio.