Grande alfiere del ‘leave’, Johnson ha promesso ai propri cittadini “internazionalista e aperta al mondo”. E grande è stato il suo attivismo nelle ultime settimane, che lo hanno visto stringere accordi commerciali con Giappone, Canada, Singapore e Turchia.
Ma il vero elefante nella stanza, ai margini del dibattito mentre ci si accapigliava su poche decine di milioni di euro in spigole e merluzzi, è l’industria dei servizi finanziari, che vale circa il 7% del Pil e ha nell’Ue uno dei principali mercati, con un giro d’affari da 33,2 miliardi di euro l’anno.
Se Theresa May aveva negoziato un accordo su questo settore, così non ha fatto Johnson. Anzi, era stato proprio il primo ministro a chiedere di lasciar fuori dalle trattative il settore dei servizi, cioè oltre il 70% dell’economia britannica, così da chiudere in fretta la partita. Questa materia sarà regolata da negoziati specifici nei prossimi mesi, con un primo termine fissato entro marzo sul cui rispetto c’è scetticismo.
Perso il passaporto europeo, il secondo centro finanziario del mondo si trova ora in balia di ventisette ordinamenti diversi, suscettibili di mutamenti ad hoc.