Un logo rivisto, un nuovo inno e senza hostess sulla griglia di partenza. Così riparte il campionato del mondo di Formula 1 domenica 25 marzo in Australia. E lo fa con ritocchi cosmetici che però anticipano altri cambiamenti più profondi.
Adesso tutto dipende dal gruppo Usa Liberty Media, che ha acquisito la F1 per 4,4 miliardi di dollari nel 2016 da Bernie Ecclestone, il quale dopo 40 anni e all’età di 85 aveva deciso di lasciare: dal 25 gennaio 2017 il nuovo presidente è il baffuto Chase Carey, che proviene dalla 21st Century Fox di Rupert Murdoch.
Il problema per Carey da affrontare subito è la redditività. Lo scorso anno, la competizione ha generato ricavi per 1.784 milioni di dollari, l’1% in meno rispetto all’anno precedente, e ha chiuso con perdite di 40 mln. In più la banca d’investimento Morgan Stanley prevede che la F1 accumulerà perdite per oltre 200 milioni fino al 2020.
Nell’era Ecclestone il modello di business era basato su tre canali: i pagamenti del circuito per ospitare le gare (il 34% del totale nel 2017), i diritti audiovisivi (33,7%) e le sponsorizzazione (15,3%).
Non soltanto la strategia commerciale, ma anche la scelta dei circuiti e persino il tipo di motori utilizzati dalle auto: l’ingresso di Liberty ha messo tutto in discussione. E soprattutto occorre puntare sul digitale, trascurato dalla gestione Ecclestone: basterà a risollevare le sorti della F1?