Mancano meno di sette mesi alla Brexit e il Regno Unito sembra affetto da apparente disturbo bipolare. Da un lato, nulla sembra muoversi in concreto. I negoziati con l’Ue sono ormai fermi da tempo. Dall’altro, ogni giorno i media britannici riportano allarmi e moniti sugli effetti disastrosi di una Brexit senza accordo con Bruxelles.
Nei giorni scorsi in un briefing con il primo ministro britannico Theresa May e i ministri del governo, il governatore della Banca centrale britannica, il canadese Mike Carney, ha sottolineato che una hard-Brexit rischia di compromettere lo status di hub finanziario europeo della Gran Bretagna, che potrebbe tra l’altro causare un “crollo dei prezzi delle case pari al 35% nei prossimi tre anni”. Ma cosa ancor più grave, il Regno Unito potrebbe trovarsi a fronteggiare una “recessione simile a quella del 2008”.
Le critiche al governo May piovono da più fronti. Tra i numerosi attacchi provenuti dal mondo delle imprese quello più duro è stato inflitto dalla prima casa automobilistica della Gran Bretagna, Jaguar Land Rover. Ralf Speth, l'amministratore delegato, ha detto al premier che le fabbriche della società hanno subito una battuta d'arresto e che "decine di migliaia" di posti di lavoro nel settore potrebbero essere persi”.
Il produttore giapponese Honda, che impiega 3500 addetti nello stabilimento di Swindon dove si producono i modelli Civic e CR-V, ha dichiarato che i costi aziendali potrebbero aumentare di circa il 10%. In onore al modello nipponico del “just-in-time”, i componenti per assemblare le auto sono consegnati da 350 camion su base giornaliera. Il problema è che la maggior parte provengono da altri paesi dell’Ue.
Poi, l’intervento inaspettato del Fondo monetario internazionale, secondo cui una Brexit "senza accordo" comporterebbe "costi sostanziali" per l'economia del Regno Unito. Basti pensare che secondo l’organizzazione con sede a Washington, l'economia britannica crescerà dell'1,5% sia nel 2018 che l’anno successivo solo nel caso in cui sia raggiunto un “buon” accordo. Ma la conclusione del direttore del Fondo, Christine Lagarde, è amara: "Qualsiasi accordo non sarà buono" rispetto alla situazione attuale con l’Ue.
Nonostante le pressioni crescenti tutto sembra fermo. E se, invece, in questo apparente immobilismo di Dowing Street si nascondesse una strategia non ancora palesata? Secondo un’interpretazione che potrebbe apparire ardita, l’esecutivo guidato da Theresa May non starebbe facendo nulla per evitare una separazione dall’Ue senza accordo perché avrebbe un secondo fine. Il che ci riporta alla bipolarità. Ben cosciente che un no-deal proietterà il Regno Unito in un tunnel dal quale sarà difficile uscire, il premier sarebbe disponibile a pagare questo ticket perché la situazione economica e sociale volgerebbe così al peggio da creare le condizioni per un secondo referendum sulla Brexit. Che risulterebbe, invece, più complesso, se non impossibile, proporre in caso di un “buon” accordo.
Con ciò sarebbe spiegato l’attuale stallo. Ma il gioco è pericoloso e il paese si è già scottato una volta, due anni fa con il primo referendum. Per questo motivo la prospettiva più probabile resta al momento quella di un accordo last-minute. Il vertice di Salisburgo del 20 settembre è stato un fallimento, ma ha lasciato una porta aperta fissando un incontro staordinario per il 17-18 novembre. Quello sarà il momento della verità.