La scoperta del polipropilene, la plastica più prodotta al mondo, trova le sue radici presso un laboratorio di ricerca pubblico italiano. La principale azienda europea di semiconduttori (STMicroelectronics) fu sviluppata da un’impresa pubblica italiana. Lo standard di codifica digitale MPEG, da cui deriva l’MP3, fu elaborato dal centro di ricerca e sviluppo di un’impresa italiana delle telecomunicazioni a controllo statale (CSELT).
Non è tutto qui, la lista è lunga. La prima centrale a concentrazione solare al mondo a immettere elettricità in una rete nazionale fu progettata e costruita in Sicilia da imprese pubbliche (ENEL e Ansaldo). Un’impresa pubblica italiana sviluppò un modello commercializzabile di auto ibrida (Alfa Romeo 33 ibrida) quasi 10 anni prima di Toyota. Un’altra impresa pubblica italiana ideò il sistema di pagamento dinamico più utilizzato in Europa (Telepass). Si tratta di informazioni veritiere e riscontrabili a dimostrazione del fatto che anche l’Italia ha avuto un suo ‘Stato innovatore’ e questo è stato perlopiù incarnato dalle imprese pubbliche, in particolare da quelle appartenenti all’IRI.
A dispetto della sua fama di carrozzone, negli anni Settanta l’IRI diventò il principale soggetto nazionale per la ricerca e l’innovazione. Pur rappresentando il 3 per cento del Pil, nel 1992 l’IRI pesava per il 15 per cento della ricerca e sviluppo nazionale (il 26 per cento del settore delle imprese). Un valore cresciuto nel tempo rispetto al 4 per cento del 1963. Le imprese IRI investivano più di quelle non-IRI nella R&S: a fine anni Ottanta l’intensità di ricerca (R&S su fatturato) delle imprese IRI era superiore al valore nazionale in tutti i settori comparabili. Inoltre, la R&S dell’IRI contribuiva al riequilibro territoriale, poiché nel Mezzogiorno pesava per circa il 40 per cento del totale delle imprese.
Le successive privatizzazioni e lo smantellamento dell’ente pubblico gettarono in mare uno strumento per le politiche dell’innovazione unico nel nostro Paese. I principali centri di ricerca sono stati chiusi o fortemente ridimensionati, con il risultato che nel 2007 la spesa in R&S delle imprese italiane era inferiore a quella del 1991 (scesa dallo 0,64 allo 0,59 per cento del Pil).
Le nostre attuali imprese a partecipazione statale pesano ancora molto per quanto riguarda la R&S nazionale, circa il 18 per cento del totale delle imprese (stima sul 2018). Queste detengono tecnologie di notevole importanza per il sistema di innovazione nazionale. Leonardo è fra i pochi soggetti nazionali che ha investito nell’intelligenza artificiale, Eni possiede il più potente calcolatore industriale non governativo al mondo (l’HPC5) e sta investendo nella fusione nucleare, Enel detiene una tecnologia unica (celle fotovoltaiche a eterogiunzione) per il suo impianto di pannelli solari a Catania, Ansaldo Energia e Snam stanno investendo negli elettrolizzatori, Fincantieri nelle navi a idrogeno, Invitalia con DRI d’Italia nel preridotto per la siderurgia, Industria Italiana Autobus ha sviluppato l’unico autobus elettrico interamente italiano.
Ma per quanto riguarda l’innovazione e la ricerca, ciascuna impresa gioca la sua partita. Non vi è una coordinazione o una messa a sistema delle attività di ricerca fra le imprese pubbliche. Ma nemmeno tra queste e la ricerca delle imprese private e delle strutture pubbliche (Università e altri enti pubblici di ricerca). Non è un caso se fra le principali 1000 società europee per spesa in R&S, l’Italia ne conti solo 50 (incluse quelle con sede legale all’estero).
La lezione IRI ci ricorda l’importanza di una politica nazionale dell’innovazione e della ricerca, in cui le grandi imprese pubbliche giocano un ruolo essenziale. Sarebbe la dimostrazione che lo Stato innovatore può lavorare con e per il settore delle imprese, non contro di esso, ma solo se motivato da fini di interesse pubblico generale.