La riforma europea sul copyright è stata approvata da una Commissione di Strasburgo e nel mese di luglio sarà sottoposta alla votazione del Parlamento europeo. Gli articoli contestati sono due: 11 e 13.
Fino ad ora i siti di informazione hanno potuto iscriversi liberamente agli aggregatori di notizie. Tra questi Google News. Ed è stato un sistema che è convenuto a tutti per lungo tempo. Poi, le piattaforme hanno iniziato ad includere sempre più informazioni oltre al titolo, come immagini e mini-sintesi. Il punto di rottura si è creato quando gli utenti hanno ritenuto sufficienti i contenuti proposti a tal punto da non cliccare più sulla fonte originaria. Secondo la norma chi inserisce il link ad una notizia, con un proprio sommario o con la citazione di un pezzo dell’articolo, deve pagare una tassa all’editore. Una vera e propria “tassa sul link“.
Nel frattempo che il Parlamento europeo decida le sorti del provvedimento, qualcosa è già successo. In Spagna non si è trovato l’accordo e Google News praticamente non esiste più. In Germania gli aggregatori citano soltanto i titoli, ma alla fine sono sopravvissuti solo i grandi media.
Il secondo problema è relativo all’articolo 13. Al momento chiunque può caricare contenuti online liberamente. Nel caso in cui il proprietario di un contenuto veda la sua opera riprodotta o condivisa senza il suo permesso, può segnalare la cosa alla piattaforma e in Italia all’Agcom, che interviene rimuovendola. Esiste poi il Creative Common, cioè una serie di licenze che consentono di dare una progressiva libertà al riutilizzo dei propri contenuti. L’articolo 13, invece, dice sostanzialmente che le piattaforme devono eseguire un controllo preventivo su ogni contenuto caricato dagli utenti, al fine di verificare che non vi sia alcuna violazione del copyright e solo successivamente accettarlo e renderlo disponibile online.
Gli art. 11 e 13 hanno il sapore di un piatto amaro servito in pasto ai big del web, come Facebook e Google, ma che rischia di essere pagata principalmente dai piccoli editori. E il paradosso è che l’idea di base non sarebbe sbagliata: quella di una misura di giustizia nei confronti di chi lavora per produrre contenuti. Ma così facendo si rischia di creare un disastro, che va ben oltre gli interessi degli editori.