Ryanair, il vettore low-cost irlandese, sembra entrato in un tunnel. Lo sciopero dei piloti di cinque paesi Ue (Belgio, Germania, Irlanda, Paesi Bassi, Svezia) di venerdì 10 agosto ha causato l'annullamento di 400 voli.
Le motivazioni elencate nei comunicati delle parti sociali insistono sul mancato aumento dei salari e della revisione delle condizioni di lavoro. Eppure il dissidio potrebbe dipendere solo in parte dalla busta paga.
A preoccupare la compagnia sembra essere la richiesta dei sindacati di adattare i contratti dei piloti alla legislazione dei singoli paesi e non solo a quella irlandese, giudicata fin troppo vicina alle imprese.
Altre compagnie low-cost, tuttavia, come Norwegian Airway e Easyjet applicano le legislazioni nazionali. L’amministratore delegato Michael O’Leary ha, invece, dichiarato alla stampa internazionale che Ryanair "è una società irlandese". Secondo l'azienda, l’imposizione di contratti diversi da quello previsto da Dublino farebbe aumentare i costi, mettendo a rischio la profittabilità - che è in diminuzione - di Ryanair e del suo modello di business.
Il ragionamento di O’Leary, a suo modo, appare lineare, ma in realtà suona come un campanello d'allarme per il vettore e forse per tutte le low-cost in genere. E, in effetti, il primo trimestre 2018 di Ryanair si è chiuso con un calo del 20% dei profitti su base annua, in discesa da 397 milioni a 319 milioni di euro nonostante l’aumento dei passeggeri e del fatturato.
Secondo O'Leary ciò è avvenuto anche per gli aumentati costi legati alle retribuzioni dei piloti. Ma il problema è proprio questo. Se per mantenere in equilibrio un'azienda, specialmente nel caso sia già affermata sul mercato, è inevitabile sottopagare i lavoratori allora c'è qualcosa nel modello di business che non va. D'altronde pagare un volo di 2-3 ore 10 euro non ha un gran senso. Come forse non ha gran senso neanche decidere quali paesi e città da visitare principalmente in base al costo dei bliglietti.