L’economia globale si è inceppata. Per capire il perché è sufficiente pensare che le catene del valore - sia interne che interaziendali, regionali o globali – ora semi-interrotte hanno rappresentato oltre i due terzi del commercio mondiale nel 2017 e un sorprendente 80% in alcune industrie manifatturiere.
A seguito del Covid-19, il commercio globale di merci è destinato a precipitare di circa 1/3 nel 2020. Ancora peggio, la pandemia ha paralizzato le reti di produzione e le catene di approvvigionamento, soprattutto in Cina che rappresenta il 28% della produzione mondiale.
Ciò ha ritardato la fornitura di servizi essenziali e alimentari, prodotti farmaceutici, prodotti medici di base (compresi camici e maschere chirurgiche), componenti elettronici e automobilistici, metallici, ecc.
Ecco perché in molti paesi si è riaperto il dibattito se sia o meno opportuno avere produzioni domestiche in settori strategici oppure no. Alcuni governi occidentali hanno annunciato piani per incoraggiare una maggiore produzione domestica di beni di prima necessità.
Ma non tutti forse hanno considerato che il gioco potrebbe non valere 1:1. La struttura dei costi (compresi quelli del lavoro) nelle economie avanzate è ben più alta rispetto a quelle emergenti. Ciò significa che si innescherebbe un processo che si concluderebbe in un sensibile aumento dei prezzi al consumo.
Dunque, se l’idea è quella di smantellare le catene del valore globali ed erigere barriere agli investimenti diretti esteri è bene sapere a cosa si va incontro. In altri termini, se rinunciamo al ‘made in China’ laddove possibile, allora entriamo nell’ottica di idee di cambiare anche il nostro modo di consumare (oltreché di produrre).