“La ripresa del conflitto fra Armenia e Azerbaijan, per l’incancrenita questione del Nagorno-Karabacach, è un frutto avvelenato – e ve ne sono tanti nel Caucaso Centrale – lasciato dalla politica staliniana di creare confini assurdi fra le allora repubbliche socialiste sovietiche per aizzare le tensioni e rendere fondamentale il ruolo di mediatore del partito comunista.” A sostenerlo è Riccardo Redaelli, docente di Geopolitica, facoltà di Scienze politiche e sociali, Università Cattolica di Milano.
All’indomani dell’implosione dell’Unione Sovietica, negli anni ‘90, i due Paesi combatterono a lungo. Poi una lunga stasi. Ora l’Armenia cristiana e l’Azerbaijan sciita tornano a combattersi per questa enclave, a causa di un deliberato attacco militare azero su vasta scala.
“Ma non si cada in errore – avverte Redaelli -. Qui la religione non c’entra nulla. In primis vi è la volontà azera di riprendersi i territori che gli sono stati strappati dall’Armenia; nonostante Baku abbia più soldati e molti più soldi per comprare nuove armi, sul campo gli armeni hanno quasi sempre avuto la meglio”. Ma “soprattutto vi è l’esigenza del presidente-autocrate azero Ilam Aliev, a capo di un sistema nepotista e corrotto, di fomentare il nazionalismo e il senso di emergenza per distogliere dai problemi interni.”
Vi è poi il piano delle competizioni regionali, con la Turchia ormai impegnata in ogni scenario di crisi mediorientale: dalla Siria alla Libia e ora anche in Caucaso. “Il sostegno turco a Baku è massiccio, dalla copertura aerea alle forniture tecnologiche fino alle voci dell’invio dei miliziani jihadisti – aggiunge Redaelli -. L’Armenia può contare su una benevolenza russa (che ha interesse a tenere lo status quo), sul tradizionale appoggio diplomatico francese e sull’aiuto dell’Iran.
Quest’ultimo è un paese musulmano sciita come sono gli Azeri, tuttavia Teheran teme che il rafforzamento dell’Azerbaijan produca tensioni con la propria forte minoranza azera interna.
Un risiko che rende particolarmente instabile l’area intorno al Caucaso. E che produce frutti avvelenati. Oltre a evidenziare l’apparente disinteresse degli Stati Uniti.