Gli Stati Uniti interverrebbero militarmente se la Cina attaccasse Taiwan: lo ha detto il presidente americano Joe Biden in conferenza stampa da Tokyo, subito dopo l’incontro con il premier giapponese Fumio Kishida, precisando che, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, l’impegno americano a difendere l’isola, che Pechino considera una provincia ribelle, “è ancora più forte”. Parole che sembrano far tramontare la calcolata ambiguità strategica che ha caratterizzato la politica statunitense sull’isola di Formosa negli ultimi decenni, mettendo in dubbio da parte di Washington il riconoscimento della politica di un’Unica Cina. La risposta di Pechino alle affermazioni del presidente non si è fatta attendere. “La Cina non fa compromessi o concessioni su questioni che coinvolgono i suoi interessi fondamentali come la sovranità e l’integrità territoriale”, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin.
Le dichiarazioni di Biden sono giunte a margine dell’annuncio di un atteso patto commerciale per la regione dell’Indo-Pacifico (Ipef). Obiettivo del piano – che comprende 12 paesi partner ma non Taiwan per non irritare Pechino – è consentire agli Stati Uniti di lavorare più a stretto contatto con le principali economie asiatiche. “L’accordo economico del XXI secolo”, come è stato presentato enfaticamente dalla Casa Bianca, vuole blindare la collaborazione su questioni strategiche che vanno dalla supply chain agli standard per un’economia digitale, l’energia pulita e la lotta alla corruzione fino alle infrastrutture. Si parla di economia, insomma, ma nel mirino c’è ancora una volta il contenimento dell’espansionismo cinese.
Tra i paesi coinvolti figurano Corea del Sud, Australia, Brunei, India, Indonesia, Giappone (Biden ha tra l’altro appoggiato l’idea che la terza economia al mondo diventi membro permanente del Consiglio di sicurezza “riformato” delle Nazioni Unite), Malesia, Nuova Zelanda, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam: in totale, è rappresentato circa il 40% della produzione economica globale, ma non si tratta di un accordo commerciale tradizionale che punta ad ampliare l’accesso dei paesi coinvolti al mercato statunitense. Aspetto che, assieme alla mancanza di impegni vincolanti, è visto con disappunto da alcuni analisti.
E poi manca il jolly. “Perdere Taiwan vuol dire perdere il Pacifico” diceva il generale Douglas MacArthur. Eppure non è solo per ragioni geopolitiche che più volte in passato l’amministrazione Biden ha dimostrato di considerare l’isola un partner chiave nel contenimento di Pechino. In primis per il ruolo delle aziende di Taipei nella cruciale catena di approvvigionamento dei semiconduttori. La Taiwan Semiconductor Manufacturing (TSMC) è il più grande produttore di chip al mondo. Un comparto industriale – secondo gli ultimi dati forniti da Bloomberg – che vale oggi più di 500 miliardi di dollari. Una produzione necessaria tanto agli Stati Uniti quanto alla Cina, e terreno di un’accesa sfida strategica, tanto che nel 2020 Washington ha espressamente chiesto a Taiwan di fermare il rifornimento di chip alla cinese Huawei. Questa piccola isola a soli 180 km dalle coste cinesi, con un Pil da paese G20, è destinata a diventare cruciale nel confronto sempre più serrato tra le due coste del Pacifico.