Le economie avanzate se ne sono servite per decenni, facendola diventare il volano dell’Occidente. Ora sembra diventata il nemico da cui difendersi. È il destino della Cina. Nel mezzo c’è la globalizzazione, che ha abbagliato la vista di molti che l’hanno intesa come una svolta per il mondo intero. Oggi sappiamo che la storia non è andata esattamente così. Luci e ombre hanno spinto la maggior parte dei Paesi a rivedere i propri piani, a tal punto che da tempo si è cominciato a parlare di de-globalizzazione.
In realtà, ora in molti preferiscono parlare di derisking (riduzione del rischio), piuttosto che reshoring (rientro della produzione delle aziende domestiche nei Paesi di origine) o friendshoring (rilocalizzazione in Stati considerati ‘amici’). Volenti o nolenti, al centro di tutto resta la Cina, che da anni invano prova a superare gli Stati Uniti sul podio dell’economia mondiale. “È troppo rischioso rinunciare del tutto a Pechino”: sembra questo il pensiero ora prevalente nelle cancellerie delle economie avanzate che sembrano appunto in questa fase mirare alla limitazione dei rischi.
Seconda economia globale, seconda anche per popolazione (appena superata dall’India), un mercato di potenziali consumatori enorme: è anche questo la Cina oggi. Ma è anche altro. C’è la questione di doversi relazionare con un ‘regime’ dispotico. Il problema è: non è contraddittorio questo (in parte condivisibile nella forma) rifiuto da parte dell’Occidente che, ieri come oggi, fa affari con le dittature più brutali in giro per il mondo?
La teoria del Paese imperialista non è invece suffragata dall’evidenza empirica (non risulta che Pechino abbia ad esempio minacciato di invadere qualche Paese (con l’eccezione di Taiwan) o di voler scatenare una guerra da qualche parte, mentre sul piano economico Pechino persegue i propri vantaggi anche all’estero, con pratiche spesso discutibili. Ma non è certo l’Occidente a poter fare la predica, dopo aver saccheggiato buona parte del Pianeta e reso la Cina la fabbrica del mondo (soprattutto occidentale).
Taiwan? L’isola, che è strategica per l’economia globale, sembra ripetere in parte il caso dell’Ucraina. La Cina la rivendica come sua. Gli Stati Uniti la vogliono completamente indipendente: non tanto per un fatto libertario ma più prosaicamente per sfruttarne maggiormente le opportunità economiche. Se qualcuno non molla la presa, Pechino riterrà probabilmente inevitabile dover invadere l’isola. Non sembrano al momento esserci spazi per immaginare altre soluzioni di compromesso.
In tutto ciò, gli Stati Uniti sembrano temere di perdere il monopolio sull’economia mondiale e non paiono pronti per accettare che la torta va divisa in due. O forse più. Un comportamento poco razionale quello di Washington che, come suggeriscono la maggior parte degli indicatori statistici, nel medio-lungo periodo non riuscirà a tenere le redini dell’economia globale, cosa che invece al momento ancora gli riesce. Basti pensare che la quota dello yuan nelle transazioni a livello globale resta molto bassa: è salita al 4,5 per cento a marzo, mentre il dollaro si è attestato all’83,71 per cento (dati SWIFT).
Più saggio, da parte dei Paesi occidentali, sarebbe ristabilire un rapporto proattivo con la Cina, che nel peggiore dei casi non darà frutti comunque peggiori dell’attuale stallo sull’asse Washington-Pechino (che in realtà va avanti da ben prima delle elezioni americane vinte da Donald Trump).
Sarebbe anche un modo per riconoscere soprattutto a noi stessi (e anche alla Cina) che se la fabbrica del mondo non ci avesse inondato di prodotti di medio-bassa qualità a prezzi molto bassi, sarebbe durata poco quella sbornia collettiva che ci ha fatto illudere per qualche decennio di aver raggiunto un Eldorado dove con poche decine di euro puoi acquistare maglietta e scarpe. E, forse, non sarebbe stata poi così male come prospettiva.