Il 23 maggio la Cina ha lanciato delle manovre militari con navi e aerei intorno a Taiwan per “punire” il nuovo presidente Lai Ching-te e le forze indipendentiste.
Il ministero della Difesa taiwanese ha reagito condannando con forza queste manovre e affermando di aver schierato “forze navali, aeree e terrestri per difendere la libertà, la democrazia e la sovranità del territorio”.
La manovre militari arrivano tre giorni dopo l’insediamento di Lai, che Pechino considera un “pericoloso separatista”. In realtà nel suo discorso d’insediamento Lai aveva attenuato la retorica indipendentista, affermando di essere favorevole al “mantenimento dello status quo”, riferendosi a un equilibrio che preservi la sovranità di Taiwan senza dichiarare formalmente l’indipendenza.
L’isola, che ha circa 23 milioni di abitanti, è autonoma dal 1949, ma la Cina la considera una provincia ribelle e punta a riportarla sotto il suo controllo, se necessario con la forza. Wang Wenbin, un portavoce del ministero degli Esteri cinese, ha dichiarato che “il sogno dell’indipendenza finirà nel sangue”.
Gli Stati Uniti, che nel 1979 hanno rinunciato al riconoscimento diplomatico di Taipei a favore di Pechino, rimangono il principale alleato e fornitore di armi dell’isola.
Un conflitto nello stretto di Taiwan, che la maggior parte degli analisti politici esclude a breve termine, avrebbe conseguenze devastanti per l’economia globale: più del 50 per cento delle navi portacontainer del mondo transita nello stretto, e l’isola produce il 70 per cento dei semiconduttori realizzati a livello mondiale.