Il libero mercato rafforza la democrazia o scatena forze antidemocratiche? Questa domanda emerse per la prima volta nell’Età dell’Illuminismo, quando il capitalismo era visto con ottimismo e accolto come veicolo di liberazione dal rigido ordine feudale.
Molti immaginavano una società di pari opportunità di piccoli produttori e consumatori, dove nessuno avrebbe avuto un eccessivo potere di mercato e dove i prezzi sarebbero stati determinati dalla “mano invisibile” (citata da Adam Smith nel volume “La ricchezza delle nazioni” pubblicato nel 1776). In tali condizioni, democrazia e capitalismo sono due facce della stessa medaglia.
La propaganda interna negli Stati Uniti ha promosso la stessa visione ottimistica nel corso dell’ultimo secolo, mirando a convincere gli elettori che il capitalismo del libero mercato è essenziale per la “via americana ” e che la loro libertà dipende dal sostegno alla libera impresa senza restrizioni e dalla sfiducia nel governo. Ma gli sviluppi economici degli ultimi decenni suggeriscono che dovremmo riesaminare tali convinzioni.
L’aspetto centrale riguarda il fatto che la concorrenza intesa come competizione tecnologica, tra le aziende innovative (ovvero la caratteristica principale della fase attuale) che cercano di accumulare potere di mercato, differisce dalla concorrenza convenzionale sui prezzi poiché produce solo uno o pochi vincitori, anziché consentire a tutte le imprese di sopravvivere con profitti inferiori.
In pratica, dagli anni ’80, il capitalismo statunitense si è trasformato in un’economia in cui il vincitore prende tutto (una o poche aziende tecnologicamente dominanti), monopolizzando ciascun settore a scapito dei consumatori, dei lavoratori e della crescita complessiva. E con il potere di mercato permanente arriva il tipo di potere politico che è antitetico alla democrazia.