Neutralità climatica e tasse alle multinazionali. La Svizzera, alla fine, ha preso due piccioni con una fava. E lo ha fatto con un referendum. Domenica 18 giugno gli elettori elvetici sono stati chiamati ad esprimersi su due temi divisivi per lo scenario politico alpino (in realtà c’è anche un terzo quesito referendario che ha riguardato la proroga di alcune delle norme anti-Covid, compresi i finanziamenti speciali alla ricerca per nuovi farmaci).
Il primo – e più dibattuto – è la legge climatica, cioè un provvedimento che si pone lo scopo di raggiungere le zero emissioni nette al 2050. Si tratta, di fatto, di allineare Berna agli obiettivi di contrasto al riscaldamento globale presi da buona parte del mondo occidentale. Il 59 per cento degli svizzeri ha detto ‘sì’. L’affluenza è stata del 42 per cento.
Un passo avanti per Berna, ma non una scelta rivoluzionaria. L’obiettivo della neutralità climatica al 2050 è ormai condivisa, come detto, da decine di nazioni in tutto il mondo, e la Svizzera è ancora indietro in molti dei campi della transizione, con emissioni pro-capite tra le più alte d’Europa. Il tutto in un territorio particolarmente esposto alle conseguenze della crisi climatica: tra il 2001 e il 2022 il volume dei ghiacciai nazionali è diminuito per un terzo.
Il secondo quesito sottoposto a referendum riguarda l’imposizione di un’aliquota fiscale minima del 15% per le grandi multinazionali. Una questione rilevante, soprattutto in un Paese considerato da molti un paradiso fiscale. Una maggioranza significativa (78,5 per cento) ha approvato l’introduzione dell’aliquota minima.
Anche in questo caso si tratta di adeguare la legislazione elvetica a nuovi standard internazionali. In particolare, con questo voto la Confederazione elvetica si allinea al progetto anti-elusione fiscale promosso da Ocse e G20. Una scelta anche in questo caso non radicale in senso assoluto, ma comunque non scontata per un paese che da lungo tempo adotta una fiscalità per così dire amichevole per le grandi corporation.