Il dibattito sul disaccoppiamento Usa-Cina sta mutando. Dal presidente Joe Biden in giù, i politici statunitensi sembrano aver compreso che non ha senso sostenere un vero e proprio disaccoppiamento. Secondo il segretario al Tesoro Janet Yellen, sarebbe una scelta “disastrosa”. Anche il segretario di Stato Antony Blinken e il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan respingono la possibilità, sottolineando che il disaccoppiamento semplicemente non può avvenire per due economie strettamente integrate.
Uno sguardo attento ai numeri offre una valutazione più sfumata. Il commercio bilaterale – esportazioni e importazioni di beni e servizi – ha raggiunto la cifra record di 760,9 miliardi di dollari l’anno scorso. Ma anche il prodotto interno lordo e la maggior parte delle sue componenti principali hanno battuto i record. Nel 2022 il commercio di beni e servizi tra Usa e Cina è stato pari al 3 per cento del Pil statunitense, in diminuzione rispetto al picco del 3,7 per cento nel 2014.
Se questo trend dovesse proseguire, potrebbe emergere un fattore critico legato alle basi macroeconomiche dell’enorme deficit commerciale americano. L’anno scorso, nonostante una riduzione dello squilibrio commerciale con la Cina, il deficit commerciale totale degli Stati Uniti ha raggiunto il record di circa 1,2 trilioni di dollari con 106 paesi (inclusa la Cina).
A questo punto, entra in gioco un nuovo fattore. Il tasso di risparmio interno netto degli Stati Uniti è sceso al -1,2 per cento del reddito nazionale nel primo trimestre di quest'anno, il dato più basso dalla crisi finanziaria globale del 2008 e ben al di sotto della media del 7,6 per cento registrata dal 1960 al 2000. Il che significa che gli Stati Uniti hanno dovuto gestire massicci deficit della bilancia dei pagamenti e del commercio multilaterale per attrarre capitali stranieri. E non saranno certo dazi e sanzioni contro Pechino a risolvere il problema.
È qui che la storia del disaccoppiamento prende una svolta inattesa. La quota della Cina nel deficit commerciale di merci degli Stati Uniti, sebbene sia ancora la più grande rispetto a qualsiasi altro Paese, si è ridotta dall’inizio della guerra commerciale, passando dal 47 per cento nel 2018 al 32 lo scorso anno. Nello stesso periodo, la quota collettiva di altri sei paesi – Canada, Messico, India, Corea del Sud, Taiwan e Irlanda – è passata dal 24 al 36 per cento.
Sebbene tale deviazione commerciale non rappresenti certo una sorpresa, per gli Usa sostituire in parte il commercio con la Cina con quello di altri Paesi può rivelarsi una scelta insidiosa perché sposta il deficit da un fornitore a basso costo ad altri più ‘costosi’. È per questo motivo che numerosi economisti definiscono il protezionismo come una tassa sulle società e sui consumatori domestici. Quindi, anche il ‘de-risking’, ovvero la riduzione dell’eccessiva dipendenza dalle catene di approvvigionamento cinesi, potrebbe portare nuovi problemi, anziché risolverli. D’altronde, ridurre in modo rilevante i rapporti commerciali con Pechino, per Washington è un po’ come voler risistemare le sedie a sdraio del Titanic (è un detto britannico).