Sono passati quarant'anni dall’elezione di Margaret Thatcher come premier britannico (1979). E da allora varie teorie monetariste sono state sposate a livello globale. Ma ora il pendolo sta tornando verso l’impostazione keynesiana secondo cui la politica fiscale offre gli strumenti più efficaci per gestire la domanda e stabilizzare i cicli economici.
In effetti, i banchieri centrali sono stati i primi a riconoscere che la politica monetaria ha raggiunto i propri limiti, mentre politici ed economisti faticano ad accettare il cambio di paradigma in atto.
Il noto detto di Milton Friedman secondo cui “l’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario” è stato confutato da numerosi studi empirici parecchio tempo fa. Ma adesso si affaccia un’altra sfida: potrebbe non esserci alcuna relazione tra espansione monetaria e inflazione. Questo è ancora un tabù, anche se ovunque le banche centrali hanno stampato quantità inimmaginabili di moneta senza vedere alcun effetto al rialzo sui prezzi al consumo.
Ancora più dura da superare appare un importante implicazione negativa del monetarismo: la politica fiscale non può stimolare la crescita economica, poiché una spesa pubblica più elevata esclude gli investimenti privati e induce un aumento delle tasse. Le varie teorie secondo cui la politica fiscale è “inefficace” – poiché un aumento della spesa pubblica determinerebbe l’aumento dei tassi di interesse, delle aspettative inflazionistiche e della tassazione futura - si sono rivelate sbagliate.
In questa ottica può esser letto l’appello di Kristalina Georgieva, la nuova direttrice dell’Fmi, che ha auspicato “un ruolo più centrale per la politica fiscale”. E nelle scorse settimane anche la Commissione Europea ha confermato la nuova tendenza: rimettere al primo posto la politica fiscale nella gestione dei cicli economici.