Rinnovarsi: un’operazione che la maggior parte delle aziende temono e quasi sempre rimandano. Un’operazione che invece è l’essenza stessa della moda e che, almeno fino a qualche anno fa, avveniva ogni sei mesi. La rivoluzione digitale ha accelerato tutto. Così dal rinnovamento semestrale si è passati a quello trimestrale e poi mensile.
Ma c’è un limite a ciò che si desidera comprare, indipendentemente dal prezzo e dal budget di ciascuno di noi. Ma soprattutto c’è un limite alla possibilità di creare qualcosa di valore e diverso da ciò che già esiste.
Detto oggi, tutto questo sembra buon senso. Eppure per almeno un decennio i marchi della moda hanno inseguito i ritmi del fast fashion. La riflessione sull’eccesso di offerta e il rischio di saturazione del mercato dell’abbigliamento e prima ancora del desiderio di moda delle persone era in corso da alcuni anni, ma c’è voluta la pandemia a imporre un esame di coscienza.
Il primo a farlo è stato Giorgio Armani, forte di un’azienda che ha chiuso il 2019 con un fatturato netto di 2,158 miliardi e un utile netto consolidato di 124 milioni.
In una lettera aperta scritta a Wwd, il quotidiano statunitense della moda e del lusso, Armani parlò all’inizio di aprile, senza mezzi termini, di “declino del fashion system”, iniziato proprio con l’aumento della velocità nel proporre nuovi capi e collezioni.
Lo stilista ritiene che la moda “non può e non deve essere veloce, perché il lusso ha bisogno di tempo per essere raggiunto e apprezzato”, si leggeva nella lettera.