Il percorso di crescita dei Paesi industrializzati è alimentato attraverso l’imperialismo? C’è una scuola di pensiero che sostiene proprio questo. Si chiama teoria dello scambio ineguale, ma non è una novità: ha già alle spalle mezzo secolo di storia. La novità sta ora nel fatto che un team di studiosi è riuscito a tradurla in numeri.
A lungo i teorici sono stati piuttosto unanimi nel motivare l’enorme divario in termini di ricchezza tra il Nord e il Sud del mondo: il primo esporta manufatti ad alto valore aggiunto e il secondo, invece, materie prime che vengono vendute a un prezzo inferiore. Una visione parzialmente contestata dal padre della teoria dello scambio ineguale, Arghiri Emmanuel.
Nel libro che l’ha reso celebre, pubblicato nel 1972, Emmanuel compara i prezzi dei beni e dimostra quanto essi siano comunque più alti nel Nord del mondo, anche a parità di categoria. La spiegazione, dunque, va ricercata altrove. Per la precisione, nei salari. Nei Paesi in via di sviluppo il costo del lavoro è più basso e ciò contribuisce in modo determinante ad abbassare il prezzo del prodotto finito. Di conseguenza, il Nord esce inevitabilmente vincitore da qualsiasi scambio commerciale perché, a parità di prezzo finale, i suoi beni incorporano una quantità di lavoro inferiore. È come se si venisse a creare un continuo flusso di sovraprofitti e soprasalari dal Sud al Nord del mondo. Amplificando le disuguaglianze che spaccano a metà il Pianeta.
Fin qui, la teoria. Un team di ricercatori di università spagnole, austriache e britanniche si è preso il compito di quantificare l’entità di questo scambio ineguale, in termini di risorse e lavoro, nel periodo compreso tra il 1990 e il 2015. Un periodo nel quale la produzione industriale si è spostata verso gli Stati a basso reddito: ormai questi ultimi esportano per il 70% prodotti finiti.
Gli autori dell’analisi, pubblicata dalla rivista scientifica Global Environmental Change, tracciano i flussi finanziari tra le nazioni basandosi sul modello MRIO (Multi-Regional Input Output). Da qui fa una stima delle risorse e del lavoro di cui il Nord si è appropriato. Per poi parametrarle sui prezzi di mercato e quindi calcolarne il controvalore monetario.
I risultati sono emblematici. Nel 2015 il Nord del mondo si è appropriato di 12 miliardi di tonnellate di materie prime, 822 milioni di ettari di terreno, 21 exajoule di energia, 188 milioni di anni di lavoro. Tutte risorse che sono incorporate nei beni e che, tradotte in denaro, avrebbero un prezzo di 10.800 miliardi di dollari. Abbastanza per porre fine alla povertà estrema; non una, ma 70 volte. Durante i 25 anni esaminati il drenaggio dal Sud del mondo è arrivato a un totale di 242 mila miliardi di dollari, un quarto del Pil del Nord del mondo.
È vero – si evidenzia nella ricerca - che i Paesi industrializzati danno anche qualcosa in cambio attraverso gli aiuti allo sviluppo. Ma è vero anche che le perdite del Sud li superano di ben 30 volte. La conclusione degli autori è netta: “La nostra analisi conferma che lo scambio ineguale è un fattore determinante della disuguaglianza globale, dello sviluppo diseguale e del collasso ecologico”.